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A 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, mentre nelle scuole circolano tuttora libri di testo secondo i quali tale Muro fu eretto dagli Occidentali e fu abbattuto dai comunisti, il comunismo e i suoi orrori rappresentano il grande rimosso della coscienza moderna e della cultura mondiale, il grande buco nero che si è ingoiato perfino la memoria di centinaia di milioni di vittime.
Cosicché oggi, su questa immane rimozione, di fronte al collasso del mercatismo, capita che si parli sui giornali di una “riscoperta di Marx” e addirittura il ministro tedesco delle Finanze Peer Steinbruck dichiara che le risposte di Marx ai problemi attuali “possono non essere irrilevanti”. Allegria!
Non un solo film, in venti anni, è stato dedicato alla sterminata macelleria del Gulag planetario e alle milioni di storie falciate dalla sistematica pratica dello sterminio e dell’oppressione, che ha caratterizzato i regimi marxisti sempre e dovunque, a tutte le latitudini e in tutte le loro stagioni. Neanche un film, né una grande opera teatrale. Qualcuno potrà indicare una pellicola come “Le vite degli altri”, ma questo film, che pure fotografa il clima poliziesco di menzogna e paura dei regimi dell’Est, non è un film sul Gulag. Ed è un lodevole, ma isolatissimo caso.
Alain Besançon, nel suo recente pamphlet “Novecento. Il secolo del male” (Lindau) ha scritto: “Il nazismo, nonostante sia scomparso completamente da più di mezzo secolo, è a giusto titolo l’oggetto di un’esecrazione che non accenna a diminuire. Gli studi carichi di orrore al riguardo aumentano ogni anno di profondità e di ampiezza. Il comunismo, invece, nonostante sia vicino nel tempo e caduto di recente, fruisce di un’amnesia e di un’amnistia che raccolgono il consenso quasi unanime, non solamente dei suoi partigiani – ne esistono ancora – ma anche dei suoi nemici più determinati; e perfino delle sue vittime. Tutti trovano disdicevole trarlo fuori dall’oblio. Qualche volta capita che la bara di Dracula si socchiuda. E così, alla fine del 1997, un’opera (‘Il libro nero del comunismo’) ha osato fare la somma dei morti che gli si possono ascrivere. Proponeva una forbice da 85 a 100 milioni di morti. Lo scandalo è durato poco, e la bara si è già richiusa, senza che questi numeri siano stati seriamente contestati”.
Quando il Mostro era ancora al potere la denuncia dei suoi orrori in Occidente era un tabù per una quantità di motivi, di bavagli e di impedimenti. Basti dire che riuscirono perfino a condizionare il Concilio Vaticano II che – in piena persecuzione rossa – non pronunciò mai la parola comunismo, né la sua esplicita condanna. Fra gli intellettuali, gli anticomunisti erano mosche bianche e isolate. Sartre arrivò a dire (lo riferì Gustaw Herling) che “non si doveva parlare dei lager sovietici perché gli operai di Billancourt non potevano perdere la speranza”.
Quando in Italia arrivò la bomba di Solzenicyn, “Arcipelago Gulag”, a squarciare i veli sull’orrore – era il 1974 – fu accolto con gelida indifferenza o con disprezzo. Pierluigi Battista sottolinea “la singolare esiguità numerica di recensioni per un libro così importante e decisivo” e, per dire il clima, ricorda la diffusione della “leggenda nera di un Solzenicyn nientemeno che al soldo del dittatore Pinochet”. Quando poi crollò il Muro e travolse quei regimi si disse che essendo – il comunismo – morto e sepolto solo dei fanatici, dei maniaci o gente con doppi fini inconfessabili poteva ancora “accanirsi” e attardarsi nella denuncia dei crimini rossi, che ormai dovevano essere consegnati agli storici. Sennonché quando Giampaolo Pansa, nel 2003, ha disseppellito “Il sangue dei vinti”, ignorato dagli storici, è stato “scomunicato” da quegli stessi storici come revisionista, storico abusivo e peggio ancora. Non doveva osare raccontare la storia per intero.
Negli anni Novanta, peraltro, la rimozione del “comunismo” è stata praticata pure dagli stati occidentali: mentre erano ancora caldi i corpi degli studenti cinesi macellati in Piazza Tien an men, mentre i cristiani sono ancora rinchiusi nel Laogai e il Tibet sanguina, gli Stati Uniti di Clinton e l’Europa tecnocratica integrarono la Cina nel mercato globale facendo finta che non fosse più un regime comunista (comunismo che continua a dominare pure a Cuba, in Corea del nord e Vietnam).
Così, nel senso comune, l’amnesia del comunismo è stata un’amnistia. Facciamo un confronto. Consideriamo il successo oceanico del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Nelle ultime ore perfino Ronaldinho ha fatto sapere di aver letto l’opera. Ormai siamo al gran completo. Personalmente apprezzo Saviano e il suo libro, ma trovo singolare questa passione planetaria, con relativa indignazione civile, per i crimini camorristici della provincia di Caserta, da parte di un’opinione pubblica e di un’intellighentsia che per decenni ha deliberatamente ignorato il clan criminale più potente, sanguinario e vasto della storia, quello comunista, che aveva in pugno metà del pianeta, da Trieste fino ai confini dell’Alaska, da Cuba alla Cina, dall’Angola all’Albania.
Come si spiega tutto questo interesse, anche fuori d’Italia, per il malaffare di Secondigliano o Casal di Principe mentre si continua a (voler) ignorare l’oceano planetario di crimini, oppressione e menzogna che, dalla rivoluzione bolscevica, ha investito miliardi di persone, ha avallato lo scatenamento della Seconda guerra mondiale e poi, con la sfida atomica, ha messo a repentaglio le stesse sorti dell’umanità?
Quanti dei milioni di lettori di “Gomorra” hanno mai letto “Arcipelago Gulag”? Quanti ne conoscono almeno l’esistenza? Quanti, fra gli intellettuali, i professori, i giornalisti lo hanno mai letto? Quando si pubblicherà in Italia tutta l’opera di Solzenicyn? Quando vedremo una grande produzione cinematografica ispirata a una delle tante storie che egli ha raccontato? Penso che dovremo aspettare ancora a lungo. Mentre il libro di Saviano, uscito nel 2006, è già diventato un film, che ovviamente ha già riscosso enorme successo, che ha sbancato gli “oscar europei” (5 premi su 5 candidature) e ora sembra prepararsi a prendere pure l’Oscar americano. Qualcuno mi obietterà: ma che c’entra?
L’aspetto singolare è che proprio Saviano, che è un uomo serio, ha dichiarato di ispirarsi, sul piano etico, nella sua battaglia civile, a un bellissimo racconto di Varlam Salamov, contenuto nell’opera “I racconti di Kolyma”. Sarebbe interessante sapere quanti dei lettori (anche colti) di Saviano sanno qualcosa di quel libro e di quell’autore. Salamov trascorse venti anni nei lager comunisti, nell’inferno ghiacciato di Kolyma. La sua opera fu pubblicata nel 1978 a Londra e New York e lui nel 1982 viene chiuso in un ospedale psichiatrico dove muore solo come un cane, nell’orrore. Il suo è un capolavoro letterario del Novecento. La prima edizione italiana (parziale) nel 1976 fu del tutto ibernata: “attorno al libro si stese un silenzio pressoché assoluto e il volume fu per noi uno degli insuccessi più clamorosi” dirà Dino Audino.
Invece in America e in Europa l’impressione fu enorme. Quando finalmente, nel 1999, la Einaudi ha pubblicato l’opera (che aveva rifiutato di pubblicare nel 1975), è accaduta una cosa singolare. Fu chiesta una prefazione a Piero Sinatti e Gustaw Herling (che ha vissuto due anni nel Gulag e scrisse, fra i primi, nel 1951, una testimonianza su questo). Ma la loro prefazione ovviamente trattava a fondo del comunismo, così la Einaudi la rifiutò perché “eccessivamente sbilanciata sul versante storico-politico”. Infatti l’opera è uscita con una prefazione che si diffonde sulla “struttura narrativa”, ma non parla di comunismo. Ed ha molte altre cose incredibili. L’assurda vicenda è stata ricostruita da Herling e Sinatti nel bellissimo pamphlet “Ricordare, raccontare”.
Questa è ancora la situazione da noi, nella nostra cultura e nei media. Non resta che attendersi da Saviano il coraggio di rompere finalmente l’omertà che da sempre circonda l’orrore criminale chiamato: “comunismo”. Noi siamo con lui.
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