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ELOGIO DI GIULIANO FERRARA, IL CENTURIONE
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
 

L'appello lanciato da Giuliano Ferrara per la moratoria dell'aborto nel mondo è un gesto insieme lucido e commovente. Lucido, perché esprime quello che tantissimi pensano ma non hanno il coraggio di dire. E cioè che la modernità – o la post modernità, se si preferisce – convive con un mostro: la condanna a morte legalizzata di milioni di esseri umani innocenti. Nessuno – nemmeno nell'ambito della cultura cattolica ufficiale – ha oggi il coraggio mostrato da Ferrara. Il coraggio lucido e insieme sfrontato di coniugare la riflessione sulla pena di morte a quella sull'aborto. Mentre in non poche parrocchie e curie vescovili in queste ore si esulta acriticamente (e in maniera anche un po' beota) per la moratoria votata dall'Onu sulla pena capitale, Ferrara alza la manona, rompendo l'incantesimo del politicamente corretto, e dice: e dei bambini non nati, vogliamo parlarne? La portata dell'articolo di Ferrara è enorme perché non fa appello ai sentimenti, anche più nobili; non solletica le corde dell'emotività; e non accetta nemmeno di essere rinchiuso nel comodo recinto della riflessione morale, nel territorio nobile ma silenzioso della coscienza. No: Ferrara pone frontalmente il problema in termini giuridici. L'aborto legale è scandaloso perché si poggia sull'idea - scritta nero su bianco dai Parlamenti democratici – che si possa procedere alla eliminazione intenzionale di un essere umano innocente senza alcun riguardo al suo indiscutibile diritto alla vita. Ferrara si spinge molto oltre una generica e tutto sommato indolore condanna morale dell'atto abortivo. Per questo non riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza.
Ma, dicevamo all'inizio, nel suo articolo c'è qualche cosa di commovente. Perché alla base del suo discorso c'è un riconoscimento. Il riconoscimento di un fatto: Ferrara assomiglia sempre più a quel Centurione romano che, stando ai piedi della croce, sul Calvario, mentre tutti irridono il Cristo, lo sbeffeggiano, lo sfidano a scendere dal patibolo affinché dimostri se egli è veramente chi dice di essere; insomma, mentre intorno il mondo non vede, non riconosce, lui, il ruvido soldato romano, a un certo punto capisce tutto e rende testimonianza: "Vere homo hic Filius Dei erat". Costui era veramanete il figlio di Dio. Ferrara assomiglia a quel centurione, perché si mette davanti all'embrione e – senza dover compiere alcun atto di fede, ma in semplice ossequio alla sua ragione – riconosce che "veramente questo è un uomo, e un uomo innocente". Lo fa sfidando l'irrisione e il sarcasmo del tempo presente. Ma proprio per questo il suo ragionevolissimo appello ci commuove. E ci spinge a promettergli che nell'ora della solitudine e della vendetta che certamente il mondo del pluralismo e della tolleranza gli riserverà, in quell'ora noi saremo – per quel poco che può valere – al suo fianco.