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A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande».
Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone - proibiti dal regolamento - che solo un profano può scambiare per dei ganci. [...]
E QUI LA FACCENDA SI FA INTERESSANTE
Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto?
Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì.
E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive - non senza una punta di involontario razzismo - il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice.
È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo.
CAMPIONE DEL MONDO
Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»).
Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna.
Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro.
Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...
IL DECLINO DI UN SIMBOLO
Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo).
Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta.
Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.
Nota di BastaBugie: Roberto Marchesini nell'articolo sottostante dal titolo "Cassius Clay è ancora sul ring" racconta altri interessanti particolari della vita e delle frasi pronunciate dal pugile appena deceduto così esaltato dai media (anche se in realtà il più grande pugile di tutti i tempi in realtà fu probabilmente l'italo-americano Rocky Marciano).
Ecco dunque le parti più interessanti dell'articolo su Muhammed Alì pubblicato su La nuova Bussola Quotidiana il 21-01-2012:
Alì danzava, letteralmente, attorno all'avversario, con quel tipico passo che fu imitato persino da Bruce Lee nell'elaborazione del suo Jeet Kune Do. Con quella danza, e con una bocca che sputava frasi irritanti per tutta la durata dell'incontro, ogni match diventava per l'avversario una tortura psicologica. Non possedeva, in realtà, una grande potenza, né una grande varietà di colpi: usava in continuazione il jab che colpiva senza tregua il volto dell'avversario senza che questo riuscisse ad organizzare una vera azione. Utilizzava anche dei trucchetti di dirty boxing: ad esempio, i suoi ganci erano in realtà sberloni, e ogni volta che l'avversario riusciva ad "entrare" gli afferrava la testa e le braccia impedendogli di boxare. In questo modo gli incontri si trasformavano in una tortura (anche psicologica) da parte di pugili anche ben dotati che non riuscivano ad essere efficaci, mentre lui li punzecchiava (anche psicologicamente) per tutto l'incontro.
Le sue provocazioni, le sue smargiassate, i suoi proclami, che hanno contribuito a far nascere la leggenda del "migliore", hanno senz'altro aiutato a creare il "personaggio" e a spettacolarizzare il pugilato, rendendolo molto popolare: "Io sono il più grande, l'ho detto prima di sapere di esserlo"; "È difficile essere umile se sei grande come lo sono io"; "Sono talmente veloce che la scorsa notte ho spento l'interruttore della luce nella mia stanza di hotel ed ero nel letto prima che la stanza fosse buia"; "È la mancanza di fede che rende le persone paurose di accettare una sfida, e io ho sempre avuto fede: infatti, credo in me"; "Sono affascinante, veloce, praticamente imbattibile"; "Joe Frazier è troppo brutto per essere campione. Joe Frazier è troppo stupido per essere campione. Il campione dei massimi deve essere intelligente e grazioso come me"; "Quest'uomo [Sonny Liston] è talmente brutto che quando suda il sudore gli va in dietro sulla testa, per non vedere la sua faccia"; "la mano non può colpire quello che l'occhio non può vedere. Vola come una farfalla e pungi come un'ape. Combatti, ragazzo, combatti!". Come ho scritto, Alì ha cambiato tecnicamente il pugilato e l'ha trasformato in uno sport presentabile in società, in grado di appassionare il grande pubblico; l'ha fatto uscire da antri fumosi e mal frequentati, trasformando gli incontri di punta in avvenimenti mediatici planetari (complice, va riconosciuto, il genio manageriale di Don King). Anche per questo, al di là dei meriti sportivi talvolta mitizzati, egli è il pugile più conosciuto ed ammirato dal grande pubblico ed è giusto, quindi, ricordare il suo settantesimo compleanno.
È giusto anche per il coraggio, tutto pugilistico, con il quale ha affrontato ed affronta la sua malattia, non nascondendosi né vergognandosi; continuando anzi ad affermare di essere il migliore non nonostante ma proprio grazie alla malattia, forse il suo avversario più temibile di sempre. Perché - ed è questo il grande insegnamento della boxe, metafora della vita - non importa se si vince o se si perde, ma importa combattere: affrontare gli ostacoli con coraggio, tenacia, sopportando il dolore e la fatica. Perché sul ring non si combatte contro un avversario, che comunque non è mai nemico, verso il quale non si prova odio, ma compassione e rispetto; che si abbraccia, alla fine dell'incontro, come un fratello, anzi: che è diventato fratello proprio grazie al combattimento. Non si combatte, dunque, contro l'avversario, ma contro se stessi: contro la paura, contro i limiti che ci siamo auto-imposti, contro il dolore.
Lo dimostra proprio un incontro minore combattuto nel 1975 da Alì contro Chuck Wepner, un pugile mediocre. L'incontro merita di essere ricordato non solo per la commuovente tenacia di Wepner (che mandò addirittura al tappeto Alì), ma anche perché questo incontro ispirò a Sylvester Stallone la sceneggiatura del più importante film sul pugilato, Rocky [leggi COME NACQUE ROCKY BALBOA, clicca qui, N.d.BB]. La saga di Rocky si è conclusa con il sesto film esattamente come era cominciata, ossia con una sconfitta del protagonista; che però viene acclamato dal pubblico. Il significato del pugilato sta proprio in questa apparente contraddizione. Lo esprime un dialogo, tratto dall'ultimo film della serie, tra Rocky Balboa e il figlio Robert: «Hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo. Sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole e l'hai trovato in un'ombra... Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente!».
La nostra società, vittima dell'utopia politicamente corretta, confonde la forza con la violenza, rifiuta lo scontro e la competizione. Persino se limitate da norme sportive e, in modo ancora più vincolante, da un codice d'onore. S'illude, in questo modo, di aver eliminato dal mondo il male, la violenza, la sofferenza; non accorgendosi di aver, al contrario, eliminato le regole e l'onore; di aver liberato i peggiori mostri dal sottosuolo nel quale erano stati rinchiusi da quelle regole e da quel codice d'onore. E quando, come è inevitabile, ha bisogno di uomini decisi, forti, risoluti, capaci di soffrire e di rischiare, di eroi, insomma, si accorge che non ce ne sono più; che i suoi figli sono bambini viziati, incapaci di sacrificarsi per gli altri, di alzarsi contro le ingiustizie, di lottare per il bene, di affrontare il male. No.
Noi abbiamo bisogno del pugilato. Che non è una esibizione di ferocia e forza bruta, come sostengono molti, bensì delle migliori doti umane. Per questo i francesi la chiamavano "la nobile arte"; e gli americani the sweet science, "la dolce scienza". Noi abbiamo bisogno di pugili. Abbiamo bisogno di uomini come Mohamed Alì. Ne abbiamo bisogno per sapere che agli uomini è possibile essere eroi. Il pugilato, ha detto un giorno George Foreman, è lo sport al quale ogni altro vorrebbe somigliare. Forse è per questo che san Paolo ha utilizzato una metafora pugilistica: «Faccio pugilato. Ma non come chi batte l'aria» (1 Cor 26). Come chi combatte veramente.
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