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« Torna agli articoli di Erminio Riboldi
I compiti di scuola, sia che si tratti di quelli assegnati per le vacanze estive, sia di quelli dati da fare a casa, durante l'anno scolastico, in genere agli studenti non piacciono. Ci sono, naturalmente, le eccezioni e non mancano studenti, soprattutto nella scuola primaria o negli anni terminali della scuola superiore che traggono un certo piacere nello svolgere i loro compiti. Ma in generale, soprattutto negli anni che vanno dalla scuola media ai primi due o tre anni delle superiori, gli studenti non si pongono nemmeno la questione di farsi piacere i compiti: sanno di doverli fare e, assodata questa verità, a volte li fanno, altre volte no.
Certamente, nel corso delle vacanze estive il compito diventa più gravoso, dato, soprattutto, il clima di disimpegno che spesso aleggia sulle vacanze dei nostri figli adolescenti.
Quel che bisogna chiedersi è se i compiti assegnati dai docenti servono a qualcosa e, se si trova che sono utili, cercare il modo per eseguirli, nonostante tutto.
Per dare una risposta a questo quesito, si può osservare quel che succede a scuola nei primi giorni di settembre, quando gli alunni ritornano tra i banchi: tutti i docenti lamentano il fatto che gli studenti sembra siano regrediti rispetto a come li avevano lasciati a giugno; la regressione non è dovuta tanto alla perdita di nozioni, in molti casi rapidamente recuperabili, quanto alla scomparsa, molto più lentamente e faticosamente recuperabile, di una serie di buone abitudini al lavoro scolastico, della capacità di concentrazione, della percezione del pericolo legato al trascorrere eccessivo del tempo tra le lezioni a scuola e lo studio individuale a casa. Per esperienza personale, posso affermare che, per un certo numero di studenti, questa impasse iniziale determina in notevole misura l'andamento negativo dell'anno scolastico che verrà.
Chi corre i rischi maggiori? Chi non ha fatto o fatto male i compiti durante le vacanze.
Se ne deduce che la funzione fondamentale dei compiti a casa è quella di dare vita a un esercizio individuale, personale che mantenga in allenamento alcune caratteristiche tipiche del lavoro intellettuale (che è il lavoro dello studente), senza il quale, in realtà, la scuola serve a ben poco.
Assodato, quindi, che i compiti servono, anche se non piacciono, si tratta di trovare il modo migliore per farli.
Innanzitutto, come tutti coloro che lavorano, anche lo studente ha bisogno di una pausa veramente tale, cioè libera dalle occupazioni abituali di chi studia, ma la pausa non può durare tre mesi.
Suggerisco che questa pausa abbia la stessa durata delle ferie di cui godono i genitori: quando tutta la famiglia è in vacanza, si fa vacanza e libri e quaderni devono essere lasciati a riposo. Questo accorgimento alleggerisce anche il compito dei genitori che hanno più bisogno dei figli di un periodo libero da tensioni, comprese quelle generate dai compiti da fare e non fatti. Tenute, quindi, salve queste due o tre settimane di assoluto riposo (più le feste comandate), nelle restanti vacanze lo studente deve studiare. Quanto? Come?
Se l'obiettivo, come abbiamo visto, è quello di mantenere l'allenamento allo studio, quel che conta è dedicare un po' di tempo tutti giorni, nei momenti della giornata che si ritengono, a giudizio di ciascuno, i più adatti. Il nemico numero uno dello studio efficace è il disordine. Serve, quindi, una pianificazione semplicissima, ad esempio una materia diversa per ogni giorno della settimana,da lunedì a sabato e un'ora ogni giorno, aggiungendo, magari, per la lettura un'altra mezz'oretta quotidiana, in punti strategici della giornata. Il nemico numero due è la fantasticheria (il contrario della capacità di concentrazione): davanti al libro e al quaderno aperto, anziché studiare, si viaggia in compagnia di ricordi, sensazioni, emozioni, in una parola si sogna; quando ci si risveglia il tempo che doveva servire per lo studio se n'è andato, la giornata è persa. Il modo migliore per evitare questo inconveniente è studiare quando si è più riposati, quando fa meno caldo, quando non si ha la pancia troppo piena.
Ai genitori suggerirei di limitarsi a favorire nei figli le disposizioni di cui sopra, senza interferire troppo quando tempi e modalità vengono generalmente rispettati; devono evitare accuratamente di spingere i figli a farli tutti subito, i compiti, per non pensarci più: non servirebbero a nulla e fanno venire in mente che i compiti siano solo un tributo da versare per tenere buono il docente – carnefice, al quale, senza volerlo, fanno una pessima pubblicità.
Per quanto riguarda i docenti, sarebbe bene che si consultassero tra loro per concertare la quantità di lavoro da assegnare per evitare un carico di compiti insostenibile, cosa che inevitabilmente succede quando ciascuno di essi agisce in proprio; i compiti per le vacanze andrebbero, inoltre, pensati non in termini quantitativi soltanto, ma soprattutto come mezzo per mantenere vive le buone abitudini di studio trasmesse durante l'anno e, se possibile, andrebbero anche personalizzati, almeno per gruppi alunni con caratteristiche o necessità simili, evitando generalizzazioni di trattamento che li renderebbero, alla fine, inutili e noiosi, in questo modo fornendo un alibi di ferro a tutti gli studenti che non li fanno.
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