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PRIMO CASO: A COSA SERVE L'AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO?
Poco tempo fa ha fatto scalpore un decreto del Giudice tutelare di Firenze che ha autorizzato l'amministratore di sostegno di una persona attualmente capace di intendere e di volere di rifiutare terapie e cure quando l'assistito si troverà in condizione di incapacità.
Si è detto: i Giudici si arrogano un potere che la legge non dà loro! La legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento risolverà anche questa questione!
COSA SUCCEDERÀ CON LA NUOVA LEGGE?
L'amministratore di sostegno cui è attribuita la rappresentanza dell'assistito in ordine alle situazioni di carattere sanitario potrà rifiutare tutte le terapie e cure (allo stesso modo del tutore o dei genitori del figlio minore): il suo rifiuto sarà efficace, anche se porterà a morte l'assistito.
MOTIVAZIONE GIURIDICA
Il potere dell'amministratore di sostegno è previsto (con gli stessi poteri del tutore) dall'articolo 2 comma 6 del progetto di legge.
Perché tanto scandalo per quanto deciso a Firenze? Forse per nascondere che la legge autorizza esattamente la stessa cosa?
SECONDO CASO: RIANIMARE I NEONATI PREMATURI?
Da molti anni una parte del mondo scientifico propone di non rianimare e lasciar morire quei neonati che, in conseguenza di un parto prematuro, possono sì, essere assistiti con una buona probabilità di successo, con l'aiuto delle nuove tecniche di rianimazione neonatale, ma rischiano di riportare handicap permanenti. Il tristemente noto "protocollo di Groningen" divide i bambini in categorie, a seconda della settimana in cui sono nati, e dispone che i più sfortunati non vengano rianimati.
Qualche tentativo di introdurre questo sistema è stato fatto anche in Italia, ma è stato sonoramente bocciato da due documenti del Comitato Nazionale di Bioetica e del Consiglio Superiore di Sanità che hanno ribadito che ogni bambino (sempre che abbia qualche chance di sopravvivenza) deve essere adeguatamente assistito.
COSA SUCCEDERÀ CON LA NUOVA LEGGE?
I genitori dei bambini potranno rifiutare il consenso alle terapie (talvolta lunghe, sicuramente intense) che i neonatologi potranno approntare. In mancanza del loro consenso scritto i medici non potranno procedere (salvo ricorrere al giudice).
Chi deciderà davvero? I genitori stravolti dalla nascita prematura e terrorizzati dalla vista del loro figlio tanto piccolo sottoposto a terapie intense o i medici che rappresenteranno loro le probabilità di sopravvivenza e quelle di avere un figlio disabile per tutta la vita?
MOTIVAZIONE GIURIDICA
La norma di riferimento è l'articolo 2 comma 7. Il fatto che il parto prematuro avvenga all'improvviso potrà essere considerato un "evento acuto" che permetterà ai medici di intraprendere le prima terapie rianimatorie (articolo 2 comma 9): ma una volta stabilizzata la situazione, i genitori potranno chiedere di interrompere i trattamenti.
Il caso dei neonati prematuri è simbolico per dimostrare quanto conti davvero l'autodeterminazione: quei bambini non potranno certo dire la loro!
Anche la posizione dei medici è esemplare: essi non correranno nessun rischio nel caso i genitori dispongano la cessazione delle terapie ma saranno in grado di influenzare in modo decisivo la decisione. Non dimentichiamo che, tra coloro che auspicano l'eutanasia neonatale vi sono anche dei medici! I neonatologi volenterosi (il cui impegno di questi decenni ha prodotto un avanzamento tecnico e medico eccezionale, permettendo di salvare bambini che, fino a pochi decenni orsono erano destinati a morte certa) avranno le mani legate.
TERZO CASO: IL (LIBERO?) CONSENSO (INFORMATO?) E IL TESTAMENTO BIOLOGICO DELL'ANZIANO ABBANDONATO
Il rapporto tra un medico e un paziente è un'esperienza umana che non si può definire in termini esatti e giuridici: comprende fiducia, informazione, paura, sostegno umano, conoscenza medica, psicologia … Quello che è stato bollato come "medico paternalista" è un professionista che sa accompagnarci nelle sofferenze e nelle malattie, ci conosce, sa come spiegarci e cosa spiegarci, ci aiuta a scegliere: una persona di cui ci possiamo fidare.
Il rapporto con il medico, però, presuppone un patto tacito: il medico non lascerà morire e non farà morire il paziente fino a quando è giunto il momento della morte naturale.
COSA SUCCEDERÀ CON LA NUOVA LEGGE?
Il rapporto tra medici e pazienti è reso formale e rigido, fatto di diritti e obblighi.
Il paziente ha il diritto di prestare o rifiutare il consenso alle terapie, ha il diritto di revocare il consenso prestato per farle interrompere, ha il diritto di rifiutare le informazioni, ha il diritto di fare una dichiarazione anticipata di trattamento e nominare un fiduciario, ha diritto a chiedere in giudizio l'interruzione di cure che ritiene costituire accanimento terapeutico. Analogamente il fiduciario da lui nominato o i suoi parenti avranno diritti ed azione verso i medici: il fiduciario, addirittura, potrà instaurare una controversia contro il medico curante davanti ad un collegio di specialisti.
L'esercizio di questi diritti è sempre esplicitato con atti scritti: il consenso alle terapie, la revoca, la scelta di non essere informato, la dichiarazione anticipata di trattamento.
I medici, dal canto loro, hanno obblighi e divieti: l'obbligo di informare il paziente sui trattamenti sanitari più appropriati, il divieto di trattamenti straordinari per i pazienti in stato di "fine vita", il divieto di attivare trattamenti sanitari in mancanza del previo consenso scritto del paziente, l'obbligo di interromperli in caso di revoca.
Ma queste regole (che sono già tutte scritte nel codice deontologico dei medici, ma che ora diventano regole giuridiche) non garantiscono affatto il paziente di essere davvero informato e davvero libero; e, soprattutto, il medico, ora, può farlo morire, se lui lo chiede.
Un esempio? La legge impone che "l'espressione del consenso è preceduta da corrette informazioni rese dal medico curante al paziente in maniera comprensibile circa diagnosi, prognosi, scopo e natura del trattamento sanitario proposto, benefici e rischi prospettabili, eventuali effetti collaterali, nonché circa le possibili alternative e le conseguenze del rifiuto del trattamento": in sostanza, ogni volta che ci prescriverà un medicinale, il medico, prima di farci firmare il foglio di consenso informato, dovrà elencarci tutto quello che è scritto nel "bugiardino" che troviamo nella confezione.
Sarà davvero così? O forse il modulo che ci faranno firmare riporterà la frase standard: "il sottoscritto dichiara di essere stato correttamente informato su diagnosi, prognosi, scopo e natura del trattamento ecc. ecc."? Ma il consenso che avremo prestato, firmando il foglio, sarà ugualmente valido.
E cosa succede se il medico non propone al paziente "i trattamenti sanitari più appropriati"?
Per il medico niente: non essendovi consenso ai trattamenti sanitari che egli non ha proposto, non sarà responsabile per gli effetti della mancata terapia.
Ma soprattutto: con che spirito l'anziano abbandonato in un ospizio insisterà per una terapia salvavita la cui decisione, ora, ricade su di lui? Sarà veramente libero di dire "sì" o "no"?
Certamente ha perso il suo alleato, il medico.
E quanto alle Dichiarazioni anticipate di trattamento? Come avrà la forza di opporsi a coloro che gli diranno (o gli faranno intendere): "Non vorrai mica gravare ancora sulla tua famiglia e sulla società, pretendendo di restare vivo quando sarai malato e incosciente?"
MOTIVAZIONE GIURIDICA
La legge vieta l'eutanasia e richiama i divieti di omicidio, omicidio del consenziente e aiuto al suicidio (articolo 1 comma 1 lettera c) ma, riconoscendo efficace il rifiuto alle terapie salvavita, non impedisce che la morte venga procurata per omissione di terapie o sostegno vitale; ribadisce che la vita umana è "diritto inviolabile e indisponibile" (articolo 1 comma 1 lettera a), ma conferma che "nessun trattamento sanitario – quindi anche quello salvavita – non può essere attivato a prescindere dal consenso informato" (articolo 1 comma 1 lettera e).
Non c'è dubbio che – trasformando gli obblighi deontologici in regole giuridiche – il rapporto tra medico e paziente cambia: la forma scritta è prescritta dall'art. 2 comma 3 che è una norma ipocrita: "L'alleanza terapeutica costituitasi all'interno della relazione fra medico e paziente ai sensi del comma 2 si esplicita in un documento di consenso informato, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica": viene "sbandierata" l'alleanza terapeutica, ma l'unica cosa che conta è la firma in calce al documento. La forma scritta è prevista anche dall'articolo 2 comma 4 e, per le dichiarazioni anticipate di trattamento, dall'articolo 4.
Nessuna sanzione (nemmeno l'invalidità del consenso prestato da paziente) è prevista nel caso che il medico non abbia proposto i trattamenti sanitari più appropriati (articolo 1 comma 1 lettera d) o non abbia reso le "corrette informazioni" previste dall'articolo 2 comma 2.
Allo stesso modo consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento devono essere scritte "in piena libertà e consapevolezza" (articolo 2 comma 1 per il consenso informato, articolo 4 comma 2 per le DAT) e, naturalmente, "in stato di piena capacità di intendere e di volere" (articolo 4 comma 1), ma nessuna sanzione (tanto meno l'invalidità delle DAT o del consenso prestato) è prevista se il paziente non si trova davvero in piena libertà psicologica (magari è spinto dai suoi familiari a firmare le DAT), oppure è affetto da depressione, oppure, ancora, si è ingannato (o è stato ingannato) sull'effettivo contenuto del foglio che va a firmare.
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