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IN ITALIA 1 BAMBINO SU 4 VIENE ABORTITO: LEGALMENTE E A NOSTRE SPESE
Occorre rilanciare una cultura pro-life senza se e senza ma, per non sparire o divenire insignificanti, lasciando la logica del compromesso alle alchimie della politica
di Mario Palmaro
 

Sono trascorsi 35 anni dall'approvazione della legge 194, che in Italia ha legalizzato l'aborto. In quel maggio del 1978, la legge fu votata da tutti partiti, ad eccezione della Democrazia Cristiana e del Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale. La legge porta però la firma dell'allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e dei Ministri di quel governo monocolore: tutti politici democristiani. Come pure democristiano era il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che dopo soli 4 giorni controfirmò la legge, non sollevando alcuna eccezione di costituzionalità.
 
UNA NUOVA DOTTRINA: ADDIO ALLA SANZIONE PENALE
A distanza di sette lustri, a che punto è la notte? Qual è oggi la situazione del dibattito intorno alla legalizzazione dell'aborto in Italia? Una risposta eloquente a queste domande si ricava dalla lettura dell'articolo pubblicato nell'ottobre del 2012 da Carlo Casini, sul numero 620 di "Studi Cattolici". In questo intervento, il presidente del Movimento per la Vita italiano sostiene una tesi che si può sintetizzare così: il fronte antiabortista deve abbandonare definitivamente la pretesa di sanzionare penalmente la donna che pratica l'aborto. Questa nuova posizione — spiega Casini — va di pari passo con il più generale superamento della dottrina della retribuzione penale, in base alla quale ogni delitto deve essere punito innanzitutto per ristabilire la giustizia, ripagando il reo con una sanzione proporzionata alla gravita della colpa commessa. Una dottrina che, scrive Cado Casini, «è stata totalmente abbandonata dalla modernità».
 
IL DIBATTITO CULTURALE SUL DIVORZIO
La discussione intorno alla punibilità giuridica dell'aborto presenta analogie impressionanti con il dibattito che si svolse in Italia negli anni Settanta in merito alla legalizzazione del divorzio. Gabrio Lombardi, Emanuele Samek Lodovici e Sergio Cotta si batterono, affinchè la legge Fortuna del 1970 venisse abrogata, insistendo sul carattere non confessionale dell'indissolubilità del matrimonio. Va da sé che questa impostazione affidava alla forza del diritto il compito di impedire il divorzio in nome del bene comune. I divorzisti dicevano: il divorzio è una brutta cosa, ma almeno per i casi limite è una necessità. Lombardi e i suoi amici combatterono e persero il referendum.
A distanza di quasi 40 anni, oggi la situazione è questa: per l'etica pubblica il divorzio è un fatto normale. Nel mondo cattolico l'indissolubilità del matrimonio - quando sia ancora accettata — è ritenuta una verità esclusivamente nella prospettiva del credente e si giudica una forma di integralismo il solo pensare che lo Stato possa imporre l'indissolubilità. Questa posizione è falsa ed eterodossa, ma vincente in modo schiacciante sul piano del senso comune. Perché siamo giunti a questo punto? Perché la verità insegnata dalla Chiesa e da Gabrio Lombardi sul fondamento naturale dell'indissolubilità matrimoniale poco alla volta è stata abbandonata, taciuta, dimenticata, rimossa dalle omelie, magari per riguardo alla "comprensione della società in cui ci troviamo a vivere". Così, non solo il diritto ha tradito la verità, ma gli stessi cattolici hanno smesso di conoscerla, di crederla, di professarla, seppure da una posizione di minoranza. E il numero dei divorzi è diventato legione.
 
IL DIBATTITO CULTURALE SULL'ABORTO
Anche in materia di aborto legale stiamo assistendo a un processo del tutto analogo di allontanamento dalla verità, che si basa sull'annacquamento e sullo smussamento delle posizioni originarie. Nel 1975, quando la Corte costituzionale legalizzò l'aborto per motivi di salute, il fronte antiabortista si muoveva su una piattaforma chiara: il diritto non deve legalizzare l'aborto, né depenalizzarlo, conservando l'ipotesi della non punibilità per stato di necessità per il solo caso del pericolo grave, attuale e non altrimenti evitabile per la vita della madre.
Il fronte abortista diceva: l'aborto è un male, ma clandestino è peggio. E poggiava la sua battaglia su un unico pilastro: la donna deve essere libera di scegliere se continuare o non continuare la gravidanza e quindi il diritto deve legalizzare e depenalizzare l'aborto. La legge 194 tradusse questa ideologia in norma giuridica, depenalizzando completamente la condotta abortiva della donna, finanziando l'aborto con le nostre tasse, introducendo l'autodeterminazione incontestabile della donna soprattutto (ma non solo) nei primi 90 giorni di gestazione. Nel 1981 venne un referendum solo parzialmente abrogativo e fu perduto ancor più sonoramente di quello del 1974.
 
LO "SMOTTAMENTO" DEL MONDO PRO-LI FE
A distanza di 35 anni dalla 194, il bilancio è il seguente: 5 milioni e mezzo di aborti, 130.000 aborti legali all'anno, più il numero non calcolabile di aborti chimici prodotti dalle cosiddette pillole del giorno dopo. Oggi, 1 bambino ogni 4 in Italia viene legalmente abortito. Numeri impressionanti. Ma peggiore dei numeri è la cultura di morte che questa legge ha prodotto: oggi per l'opinione pubblica italiana l'aborto non è più un male da consentire in casi eccezionali, ma una prassi normale. Se poi il nascituro presenta delle patologie, reali o presunte, oltre il 90 per cento delle gestanti opta per l'aborto eugenetico, a norma di 194.
Come siamo arrivati a questo punto? Il mondo pro-life e cattolico ha subito il suo smottamento di piattaforma: adesso non ci si batte più per la punibilità dell'aborto, ma "affinché sia veramente rispettata la libertà della donna". Una tesi che nel 1975 fioriva sulle bocche degli abortisti, una tesi pro-choice. Questa posizione implica l'abbandono — come avvenne per il divorzio - del terreno giuridico di conflitto, per ritirarsi nel campo più morbido e fluido delle esortazioni educative. La nuova linea è: non diciamo più che l'aborto va vietato, anche perché oggi è impensabile convincere la gente a obbligare una donna a partorire (cosa che per altro s'è fatta per secoli nei codici preunitari e unitari); diciamo piuttosto che si deve aiutare la donna a non abortire. Praticamente la stessa posizione di Enrico Berlinguer nel 1975. Pier Paolo Pasolini, tanto per dire, era molto più prò-life di questa posizione che oggi è fatta propria da molti pro-life e cattolici.

UNA LEGGE GRAVEMENTE INGIUSTA
Nonostante alcuni giuristi, anche autorevoli e di area cattolica, tentino di difendere la bontà della legge 194 - che sarebbe solo applicata male -, essa è una legge gravemente ingiusta, come la "Civiltà Cattolica", la Conferenza episcopale e il Papa dissero senza giri di parole nei mesi della sua tragica approvazione. Perché la 194 è una legge gravemente ingiusta? Forse perché non afferma il "valore da difendere"? Nient'affatto, anzi: la legge reca "Norme per la tutela sociale della maternità e dell'infanzia" (fu una geniale idea dei cattocomunismi indipendenti del Pci) e all'articolo 1 afferma che lo Stato «tutela la vita umana fin dal suo inizio». Ma nel diritto ciò che conta è che cosa il legislatore vieti, che cosa imponga di fare e con quale sanzione minacci e punisca i disobbedienti. Il resto è aria fritta.
La legge 194 è una legge malvagia, perché decide di sottrarre il nascituro - soggetto innocente, debole e indifeso — alla protezione che le norme del codice penale un tempo gli assicuravano. Al diritto interessa poco che la gente faccia grandi discorsi sul valore della vita o che si innamori della vita. Al diritto interessa, in via minimale, che non si uccida l'innocente. Per questo motivo un uomo di sani principi che uccide va in galera e un uomo moralmente abietto che non ammazza resta libero di circolare. Giustamente promuoviamo una cultura convinta di rispettare il nascituro, ma questa non può rimpiazzare il vuoto normativo che rende lecito il delitto dell'aborto procurato. Anzi: senza tutela giuridica, l'etica pubblica vira in senso permissivista. Tacere questa verità significa abbracciare la cultura abortista.

LA DOTTRINA DELLA CHIESA E LA PUNIBILITÀ DELL'ABORTO
La punibilità dell'aborto non è affatto una questione opinabile, se ci si inserisce nella dottrina del diritto naturale e più ancora nella dottrina della Chiesa. Al numero 11 dell"Evangelium Vitae", parlando dei nuovi delitti contro la vita fra i quali supremo è quello dell'aborto volontario, Giovanni Paolo II scrive che ormai si pretende «un vero e proprio riconoscimento legale (di tali delitti) da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi operatori sanitari». Al numero 20 si legge che, quando con il voto parlamentare o della popolazione si nega il diritto alla vita, «il diritto cessa di essere tale (...) ma viene assoggettato alla volontà del più forte». E «la democrazia cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo».
Se queste parole hanno senso, significa che una legge 194 non è vero diritto, ma "corruptio legis" e come tale va denunciata, e come tale cessa di impegnare in coscienza i consociati. Altro che "legge applicata male e fraintesa". La Congregazione per la dottrina della fede nel 1980, nel documento "lura et Bona", scrive che «niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto». Al numero 58 dell' "Evangelium Vitae" si legge che «la gravita morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un omicidio». Ora, si potrebbe pensare di vietare l'omicidio depenalizzandolo e sostituendo con una petizione di firme che accertino il valore di ogni essere umano già nato?
Al numero 62, si ricorda che il diritto canonico commina la severa pena della scomunica latae sententiae, inflitta alla donna e a tutti i complici. Al numero 71 si legge che «la tolleranza legale all'aborto e o dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi  al rispetto della coscienza degli altri». Ergo, la coscienza della donna deve essere costretta dal diritto a non uccidere, ovviamente nei limiti empirici che ogni norma umana deve scontare in termini di parziale inefficacia della sanzione

LA RETRIBUZIONE PENALE E IL MAGISTERO
Il carattere retributivo della pena non è affatto opinabile, se ancora una volta ci si inserisce nella dottrina del diritto naturale e più ancora nella dottrina della Chiesa. Da Socrate a Platone, da Tommaso d'Aquino a Pio XII, da Kant a Hegel, la retribuzione è un cardine  della dottrina della colpa e della pena, sia sul piano umano che soprannaturale. Sempre in "Evangelium Vitae" al numero 56 (e si cita in parte il numero 2266 del catechismo della Chiesa Cattolica) leggiamo che «in effetti la pena che la società infligge ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione di una adeguata espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio della propria libertà». Se questa non è retribuzione...
Il carattere preventivo della pena e la funzione di emenda e rieducazione vengono citati subito dopo, con un significativo «anche»: segno che questi sono fini buoni e giusti della pena, ma che non possono rimpiazzare il fine principale, quello retributivo

UN MONDO PRO-LIFE IN CRISI DI IDENTITA'?
Un'ultima annotazione: i pro-life sono un movimento culturale di minoranza. Sono anzi la minoranza di una minoranza. Ora, quando un movimento di opinione e di minoranza decide di attenuare la radicalità delle sue posizioni, si condanna all'insignificanza e alla scomparsa. La logica della mediazione e del compromesso si addice, a certe condizioni, alla politica. Ma non è compatibile con un movimento di opinione.
Le associazioni che al mondo si battono contro la pena di morte non deflettono dalla richiesta di abrogazione totale, pur sapendo che in molte nazioni questa idea non è approvata dallo Stato o dall'opinione pubblica. Una raccolta di firme come "Uno di Noi" – promossa dal Movimento per la Vita e dall'associazionismo cattolico italiano – non è da disprezzare, ma presentiamola per quella che è: una mozione d'ordine, che vuole affermare il valore del concepito, ma senza dire una sola parola contro l'aborto legale e contro la fecondazione artificiale. E' una verità parziale e come tale va presentata correttamente al pubblico.
I movimenti pro-life statunitensi, dopo 40 anni dalla sentenza abortista Roe vs Wade, sono ancora schierati apertamente per l'abrogazione totale dell'aborto legale e per la sua punibilità, marciando a Washington in 500.000. E pare che l'opinione pubblica americana sia ancora oggi spaccata al 50 per cento tra favorevoli e contrari. Forse faremmo bene ad imparare da loro.
La Marcia nazionale per la Vita, che si è svolta a Roma il 12 maggio con uno straordinario successo, rappresenta il tentativo italiano di riprendere il filo di una cultura pro-life senza se, senza ma, senza tentennamenti, senza compromessi al ribasso.

 
Fonte: Radici Cristiane, giugno 2013 (n.85)