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La notizia è già girata: la nazionale spagnola, guidata dall'allenatore Luis de la Fuente Castillo, ha vinto gli Europei 2024, salendo così per la quarta volta sul tetto d'Europa. Sopra a quel tetto e più su, oltre il cielo di Berlino, secondo il CT della squadra iberica c'è Qualcuno che dà senso a tutto, anche a una conquista sportiva tra le più prestigiose. Nella conferenza stampa che ha preceduto la finale che ha visto trionfare la Spagna sull'Inghilterra per due reti a una, un giornalista della BBC lo ha interpellato sulla sua fede, come riporta Aciprensa: «Quelli di noi che sono atei rispettano ma non comprendono appieno il rapporto di coloro che hanno fede in Dio. Dov'è Dio e la fede quando c'è una finale e ci vuole assolutamente tutto per vincere?». La risposta di de la Fuente Castillo, che ha suscitato le risate dei presenti, ha mostrato come l'esperienza del credente nei confronti di chi non crede sia esattamente la stessa, uguale e contraria: «Ti capisco perfettamente perché con gli atei mi succede la stessa cosa, esattamente la stessa cosa».
Non dice cosa c'entri la fede con il desiderio di vincere una finale, ma spiega come questa dimensione investa tutta la vita, quindi anche la professione, nel suo caso quella di allenatore: «La fede è qualcosa di personale e trasferibile, in questo caso non è incedibile, è trasferibile, ma è personale. [...] Siccome sono libero e posso scegliere quello che penso di dover fare, la mia intelligenza e le mie esperienze [...] ebbene, mi invitano a credere in Dio e mi danno molta sicurezza e molta forza». E non si tratta di superstizione, un insieme di riti o pensieri da rivolgere a un'entità misteriosa per estorcere benefici personali. La fede di cui parla è invece un atto umano integrale che si appoggia alla ragione, all'esperienza e alla volontà: come l'amore, la fede nasce anche da una decisione.
Lo spiega chiaramente in un'altra intervista a El Mundo online dove racconta di essere tornato alla fede cattolica nella quale pure era stato educato per una sua libera decisione. Le ragioni per credere erano sempre state lì, ma per un lungo tratto della sua vita erano prevalsi i dubbi. Lo chiarisce rispondendo alla domanda del giornalista: «Dammi una ragione per credere in Dio». «Altrimenti la vita non avrebbe senso. È qualcosa che devi vivere, che avrebbe dovuto esserti spiegata. Sono religioso perché ho deciso di esserlo. Vengo da una famiglia religiosa, ma per tutta la vita ho avuto molti dubbi e mi sono allontanato dalla religione. Ma a un certo punto della mia vita, ho deciso di rivolgermi di nuovo e di appoggiarmi a Dio per tutto ciò che faccio. Non esiste una, ma mille ragioni per credere in Dio. Senza Dio, nulla nella vita ha senso». Per questo, una volta che la luce della fede ha iniziato a penetrare ogni aspetto della realtà, è difficile per chi crede comprendere la visione dell'ateo. Per il sessantatreenne allenatore delle furie rosse la fede cristiana non è solo visione e comprensione intellettuale, però, è il rapporto con Qualcuno che attraversa ogni altra relazione, con il prossimo, la carriera, i successi e i fallimenti.
Da come racconta sempre nell'intervista a El Mundo, la dimensione spirituale sembra rimettere in ordine tutto il resto, permettendogli di gioire dei successi, di chiedere perdono per gli errori, di proteggersi dall'invasività dei social media e di considerare un obiettivo di prim'ordine il suo valore come persona e non la lunghezza dell'elenco di titoli conquistati: «A Del Bosque non piace molto che la gente anteponga la sua brava persona ai suoi meriti professionali. Ti succede qualcosa di simile?»
«No, no, per niente. Per me essere una brava persona è fondamentale, è un valore aggiunto. Datemi delle brave persone, innanzitutto, e poi dei bravi professionisti.»
«Ma preferisci che la gente dica: 'è una brava persona, ma un pessimo allenatore'?»
«Professionalmente, i risultati ti mettono al tuo posto. La valutazione professionale è soggettiva. Ma quello che penso sia più importante è che ti dicano che sei una brava persona. È meglio vivere facendo il bene che facendo il male, il male non riposa».
Il male tormenta e annoia, anche se in era moderna ha riscosso tanto successo nelle rappresentazioni artistiche e cinematografiche. Il peccato fa male e non è così divertente come lo staff marketing che vi si dedica - instancabile - fa di tutto per farci credere. Si potrebbe ripartire da questo e dalla considerazione che una persona che serve l'ideale del Bene non è affatto il bonario e ottuso parrocchiano (anche questo, uno stereotipo che gradiremmo abbattere) che si accontenta di esercizi devozionali e buoni sentimenti, ma un allenatore che lavora sodo, apprezza i propri giocatori innanzitutto come persone e, per inciso, ha appena sollevato il trofeo più prestigioso d'Europa. Alla fine non è poi così da "nerd" invocare l'intercessione dei santi e della Vergine, come dice di fare abitualmente il tecnico spagnolo, no?
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