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... Sfidare i pregiudizi sull’omosessualità è possibile, perfino da una prospettiva insolita e dichiarata inaccettabile da parte dei movimenti gay.
Dal 1967, quando discusse la sua tesi di laurea ad Amsterdam, lo psicologo olandese Gerard van den Aardweg mette in discussione la teoria che indica un’origine genetica dell’orientamento omosessuale. «Non c’è nulla di innato, è soltanto disinformazione», spiega a Libero, «Dopo 15 anni di ricerche sui gemelli, monozigoti e no, non è stato dimostrato proprio nulla. Anzi, tutto indica il contrario, cioè che il contributo genetico all’omosessualità è pari a zero».
Van den Aardweg è in Italia per un corso organizzato da una decina di associazioni che propongono un’alternativa al coming out. Invece di seguire la teoria affermativa (“accettati per quello che sei”), si dà una possibilità di cambiare. A chi vuole, si intende.
Eppure anche gli effetti della terapia riparativa sono discussi. Perché alcuni ritengono che sia addirittura pericolosa?
«Non c’è nessun pericolo. Magari alcuni abbandonano la terapia per un motivo qualsiasi, poi vanno in crisi per altre ragioni indipendenti e sprofondano di nuovo nel loro peccato».
Lo definisce peccato?
«Certo. È la conseguenza di un complesso di inferiorità rispetto alla propria mascolinità nel caso degli uomini o della propria femminilità nel caso delle donne. Ma è soprattutto una menzogna verso se stessi. E il cattivo comportamento sessuale che ne deriva è peccato. E si tratta di un sentire assolutamente universale, in tutte le società, non soltanto in quelle di tradizione giudeo-cristiana. Anche nella cultura cinese e in quella africana non è considerato lecito. Ed è segno che il rifiuto sociale dell’omosessualità deriva dal senso comune».
Come mai in Occidente si fanno tanti sforzi per rendere socialmente accettabile l’omosessualità, allora?
«È dagli anni Settanta che i movimenti gay hanno compreso che, se si riesce a vendere l’idea dell’omosessualità innata, si può provocare un cambiamento sociale. Perciò cercano sempre nuove indicazioni che, puntualmente, dopo qualche anno sono smentite. Io le chiamo le “teorie della farfalla”, perché catturano l’attenzione dei media ma poco dopo muoiono».
Se i movimenti gay vogliono provocare un cambiamento sociale, significa che hanno un progetto politico?
«Sono il retroterra di un progetto più grande, come quello dei movimenti anti-famiglia e anti-natalista, che hanno ottenuto successi politici riuscendo per esempio a convincere gli Stati a sostenere i programmi di sterilizzazione. La normalizzazione dell’omosessualità si innesta in questa tendenza: se si riescono a crescere generazioni convinte che l’omosessualità sia accettabile, si avranno anche nuove risorse per combattere la guerra psicologica e di propaganda che condurrà a una drastica diminuzione del tasso di natalità. Da soli, i movimenti gay non avrebbero avuto la forza di affermarsi, perché non hanno il consenso della popolazione. Perciò cercano, e in parte vi sono riusciti, di deviare l’opinione pubblica con la loro propaganda».
Quali argomenti utilizza per contrastare quella propaganda?
«Semplicemente la diffusione di informazioni veritiere e la promozione di relazioni familiari e matrimoni migliori. Questo mi pare il momento buono. Nei Paesi Bassi si avverte già una saturazione crescente riguardo alla propaganda gay, un’ideologia che ha esagerato. Era molto più influente trent’anni fa, quando se ci si dichiarava omosessuali si era oggetto di una discriminazione positiva e si ottenevano i posti di lavoro migliori. Ora si assiste a una certa, lieve, controtendenza. Il ministro della Sanità olandese, pur essendo di sinistra, ha concesso sussidi triennali a gruppi di ex-gay che aiutano le persone a orientarsi nella direzione giusta. Potrebbe rappresentare un inizio per chi è davvero discriminato».
Chi intende?
«Coloro che soffrono da soli e in silenzio, quel 50 x cento di giovani che scoprono di avere quel tipo di sentimenti, ma non vogliono precipitare nella vita omosessuale. Vorrebbero cambiare, ma intorno a loro tutto sembra renderglielo impossibile, perché i gruppi militanti e i politici li discriminano».
Anche grazie alle leggi anti-discriminatorie? Pensa che restringano gli spazi della libertà di opinione?
«Certo che li restringono. Creano difficoltà concrete in alcune professioni per chi non accetta le parole d’ordine pro-gay. Ormai è come ai tempi del nazismo: chi era contro le leggi razziali veniva isolato».
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