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Scusate ma c’è una cosa che non capiamo. Se Eluana Englaro «non soffrirà perché è già morta 17 anni fa», come ha detto ieri il primario di anestesia di Udine Amato De Monte, se insomma non avverte nulla perché ormai è «un vegetale», come ha detto sempre lo stesso prof, qual è il beneficio che avrà nel passare dalla clinica di Lecco dov’era curata dalle suore alla tomba? Se davvero non sente né dolori né piaceri, se insomma non soffre perché non ha più alcuna coscienza, dov’è l’atto di pietà nel farla morire? Dov’è l’atto d’amore?
Perché questo dicono coloro che vogliono staccarle il sondino che la alimenta: dicono che è un atto di amore per lei. Ci viene il sospetto che, come in tanti casi di eutanasia, sia chi resta - e non chi se ne va - a cercare nella fine un conforto.
Ma anche qui. Siamo sicuri che Beppino Englaro troverà pace quando finalmente avrà vinto la sua battaglia? Quando sua figlia sarà morta davvero?
Siamo sicuri che non proverà rimorso? Che non sentirà ancor più vuote le sue giornate, finora occupate dalle carte bollate, dai ricorsi, dalle interviste, dall’affannosa ricerca di una clinica che accogliesse la sua richiesta?
Siamo sicuri che non avvertirà un drammatico scarto tra la speranza a lungo coltivata e la realtà che si troverà ad affrontare ogni mattina? Ha detto, Beppino Englaro: «Mia figlia è stata ridotta così dalla medicina e la medicina dovrà porre fine a questo incubo». Siamo sicuri che non si troverà a vivere un incubo ancora peggiore? Che non si sentirà vittima di un grande inganno?
Tra pochi giorni Eluana comincerà la sua terribile agonia. Perché non c’è nessuna spina da staccare, non ci sono cure farmacologiche da sospendere: c’è solo un’alimentazione da interrompere, un’acqua e un cibo da non dare più. L’anestesista dice appunto che «non soffrirà»: a noi vengono in mente le terribili immagini di Terry Schiavo. Perché è così che Eluana morirà.
Inconsapevole strumento di una battaglia che ha ben altri fini rispetto a quelli di «non farla soffrire più», Eluana Englaro resterà nella memoria non come una persona ma come un precedente, un simbolo, una bandiera da sventolare per chi avrà introdotto un principio: quello che permetterà a qualcuno di stabilire che un altro è un «vegetale» e non ha più diritto - naturalmente per il suo bene - di mangiare e di bere.
Morta Eluana, chi potrà decidere quando è lecito staccare il sondino che alimenta e quando no? Quanti pazienti in coma saranno considerati casi del tutto assimilabili a quello di Eluana? E un anziano malato di Alzheimer, non è anch’egli incosciente? Anch’egli incapace di alimentarsi da solo? Anch’egli nutrito da qualche suora? La morte per fame e per sete di Eluana Englaro sarà la prima di tante altre, e ogni volta, caso per caso, gli scrupoli saranno sempre meno rigorosi, le resistenze sempre più fragili.
Noi non abbiamo certezze sul labile confine tra il dovere delle cure e l’accanimento terapeutico. Però avvertiamo - chissà, forse più con il cuore che con la ragione - un brivido sinistro nel seguire questo viaggio da Lecco a Udine, un viaggio che ci appare così lugubre e macabro da non farci capire come possano, in tanti, salutarlo come una «conquista di civiltà»; come possano, in tanti, dire e scrivere che è «un viaggio verso la libertà».
Ecco perché speriamo in un miracolo. Che non è la guarigione di Eluana (magari, accadesse) ma una specie di ripensamento, di un flash che faccia perlomeno sospettare a Beppino Englaro che c’è un qualcosa di invisibile, ma di reale, che fa della stanza delle Misericordine di Lecco un luogo ben più luminoso rispetto alla stanza della «Quiete» di Udine. Un qualcosa che assomiglia molto alla differenza tra l’amore e il nulla.
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