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« Torna agli articoli di Marco Invernizzi
«17 marzo 2061. Il Presidente della Repubblica va in visita ufficiale a Senigallia, nella casa nativa di papa Pio IX, da pochi anni canonizzato dalla Chiesa, non per chiedere scusa ma per completare un processo di pacificazione fra l'Italia cattolica e quella dello Stato nato appunto il 17 marzo 1861». Un sogno, una "cosa che non sta da nessuna parte", una inutile provocazione oppure una speranza legittima dopo la preghiera recitata per i caduti dal segretario di Stato vaticano a Porta Pia il 20 settembre 2010 e le celebrazioni liturgiche officiate dalla Gerarchia ecclesiastica per i primi 150 anni di unità del Paese? Una speranza, cioè, che si riconosca al "grande vinto" di allora, il Papa nel frattempo diventato san Pio IX, e a tutti coloro che hanno combattuto per lui e per la Chiesa la dignità di italiani, a tutti gli effetti.
Vedranno coloro che ci saranno fra cinquant'anni.
Intanto a noi tocca tentare un primo bilancio, arrivati al 17 marzo del 150° anniversario della formazione del Regno d'Italia. Una prima constatazione, comune a chi ha tenuto un certo numero di conferenze e convegni sul tema nei mesi passati, è l'enorme distanza esistente fra le celebrazioni ufficiali e il comune sentire della gente, almeno di quella parte della popolazione che si interessa dell'identità nazionale. Quest'ultima sopporta a fatica la retorica risorgimentalista ancora ripiegata sui padri della patria "maestri incorrotti" che da un secolo e mezzo viene insegnata nelle scuole e che ancora viene trasmessa, come testimoniano i disegni dei bravi ragazzi delle elementari che di solito servono per addobbare le sale dove si tengono le conferenze cui ho appena accennato. E male sopportano questa retorica non perché non si sentano italiani o perché abbiano nostalgie pre-unitarie, ma perché percepiscono che la retorica del Risorgimento è ideologica e falsa e che l'unificazione nazionale ha provocato alcune ferite di cui per decenni non si è volutamente parlato.
Centinaia di opere, apostrofate come revisioniste dalla classe intellettuale (con qualche meritoria eccezione), sono invece state stampate in questi ultimi anni e soprattutto comprate e lette da decine di migliaia di lettori. Sono opere di diverso valore e di diversa ispirazione culturale, ma il loro successo commerciale è la testimonianza di un disagio reale fra la popolazione. Mi è capitato spesso, in questi ultimi mesi, di ricevere inviti da parte di Comuni a trattare il tema Risorgimento, e mentre quasi sempre i membri dell'amministrazione mi invitavano a trattare il tema con moderazione, in sala poi trovavo un pubblico molto critico, a volte esageratamente, contro il Risorgimento.
Ora questo malessere esiste e va affrontato prima che diventi una ostilità cronica verso le istituzioni, qualunque orientamento esse abbiano. E' una ferita, come le altre che hanno accompagnato la storia italiana dall'Unità in poi. Una ferita simile a quella della forma centralista dello Stato, che sta cercando di curare il nostro Parlamento con la riforma federalista, simile a quella provocata dalla guerra civile durata dieci anni nel Sud d'Italia (1860-1870) e simile anche alla ferita che ha provocato la questione cattolica, che è molto più vasta, perché culturale, della "questione romana", chiusa con il Concordato e con il Trattato del 1929.
Una ferita che, se non verrà riconosciuta e medicata, potrebbe allontanare definitivamente gli italiani dalle loro istituzioni.
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