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« Torna agli articoli di Paolo
È la sera del 18 aprile 1990. Lo stadio di Monaco di Baviera è gremito di tifosi.
Si gioca la semifinale della Coppa dei Campioni tra Bayern e Milan. Gli italiani hanno vinto all’andata. Ma il Bayern segna riaprendo i giochi. Si va ai supplementari.
Dieci minuti e Stefano Borgonovo, centra¬vanti, entrato nel secondo tempo, con un pallonetto scavalca il portiere tedesco Au¬mann. Quando la palla cade nella rete, Ste¬fano è già a braccia alzate. In finale il Milan vincerà contro i portoghesi del Benfica.
Quando, per caso, mi sono imbattuto nella sua vicenda, i ricordi sono andati a quella sera di 18 anni fa. A quell’eccitazione che riempie la testa di un ragazzino allora dodi¬cenne, per quel gol atteso, e poi segnato dal¬l’ultimo entrato. A quel gusto di eroico che può fargli desiderare di essere un giorno al suo posto, calcia¬tore in una gran¬de squadra, capa¬ce di fare emozio¬nare la gente.
Penso a questo mentre seguo la macchina con i giovani infermieri che vanno a tro¬varlo, a casa sua, nel cuore della Brianza, dove Ste¬fano è nato 44 an¬ni fa. È tornato a casa la settimana scorsa, dall’ospe¬dale Niguarda di Milano, dopo sei mesi di ricoveri al reparto Nemo.
Dove, per inten¬derci, vengono assistiti i malati di scleros i la¬terale amiotrofica e altre malattie neuromu¬scolari.
Stefano oggi è malato di Sla. Non si muove più. Respira e si nutre grazie alle macchine, sdraiato su un lettino. La malattia impedisce al cervello di comunicare con il resto del corpo, come un ciclista che pedala su una bicicletta senza catena. Conosciuta anche come 'Morbo di Lou Gehrig', è una malat¬tia che progressivamente colpisce i moto¬neuroni, le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che consentono i movimen¬ti. Non se ne conoscono le cause. Non esiste cura. Si può solo rallentarla, allontanando la morte.
Con Maria, Antonella e Pietro, infermieri che gli sono diventati amici durante il rico¬vero al Nemo suoniamo al citofono. Arriva anche Paolo, fisioterapista poco più che ventenne, che lo ha assistito. Ci accoglie la moglie, Chantal. È appena tornata dall’asilo dove ha recuperato Gaia, 5 anni. La più pic¬cola dei quattro figli. Stefano è sul letto e ap¬pena rivede gli amici gli si apre un sorriso sulla faccia. Pochi secondi e una voce metal¬lica esclama: «Ciao ragazzi». È la nuova voce di Stefano: un sintetizzatore legge per lui quello che digita su uno schermo con gli oc¬chi, attraverso un sistema a infrarossi che interpreta i movimenti delle pupille. Di fian¬co a lui una grande libreria, piena di cd e dvd. «Pietro, scorri l’anta. Guarda in alto. Scatola bassa», “dice” Stefano. Dentro, tante foto, tanti ricordi. E un pacchetto di figurine di quando giocava nel Milan, da regalare a¬gli amici. Con Chantal guardiamo le foto di Stefano, durante una cena, al mare, in alle¬namento… «Vedete quanto era bello Stefa¬no », e ridendo le allunga alle ragazze. Oggi è lei che lo accudisce, insieme ai figli che la aiutano.
Stefano scherza con gli infermieri. Chantal porta da bere, c’è anche un amico di infan¬zia di Stefano che si riconosce in una foto inquadrettata, tra altri dieci ragazzini di una squadra della parrocchia. La finestra è spa¬lancata, dietro il letto. Lui sta lì, immobile. È felice.
Mi siedo vicino, in modo da leggere quello che scrive sullo schermo. Tutto è cominciato nell’ottobre 2005: «Un giorno mi sono ac¬corto che non riuscivo a dire alcune parole», spiega. Allenava da tre anni le giovanili del Como, dove aveva iniziato la sua carriera. A¬veva da qualche tempo aperto una scuola calcio, la Extrasport, nella zona dove abita, dopo essersi ritirato dai campi di gioco. «Al¬l’inizio ero confuso e spaventato, ma c’era la mia famiglia, e miei amici che mi hanno aiutato molto. E poi il mio carattere…». Ste¬fano è un vulcano di vitalità. Mentre mi rac¬conta, come può, la sua storia, continua a scherzare con i ragazzi. Ha un tatuaggio che raffigura Peter Pan, come il simbolo della sua scuola calcio. «Sai, il calcio per me è sta¬to un terzo genitore, mi ha insegnato tanto, mi ha fatto crescere, grazie anche ad alcuni grandi uomini che mi è capitato di incontra¬re nelle squadre in cui ho giocato». Partito dal Como, poi alla Sambenedettese, quindi il periodo d’oro a Firenze e a Milano, con al¬cune presenze nell’Italia, nel 1989. Poi Udi¬nese, Pescara… e di nuovo Como. «Ricordi i miei gol?». Era un acrobata: rovesciate, tuffi di testa, molto veloce. Gli occhi di Stefano, scuri, profondi, vivaci sono gli stessi di allo¬ra. Che vita è questa, Stefano? «Ma come? Guarda Chantal. Guarda i miei figli… Amore». «Ciao papà», risponde Gaia senza disto¬gliere gli occhi dal libro che sta sfogliando sul divano: «Questa è vi¬ta », dice lui. I ragazzi del Nemo stanno ridendo per una vecchia foto di Stefano che “sfotte” Ro¬berto Baggio… «Guardali! Questa è vita». Gli amici, la scuola calcio, i film, la musica. «Tutto questo è vita».
L’interruttore del respira¬tore è lì, vicino al letto.
Eppure c’è chi al tuo po¬sto staccherebbe la spina, chi dice che non è una vita che vale la pena di essere vissuta… «Gli risponderei questo: proteggi i doni del¬l’infanzia, conserva la capacità e la disponi¬bilità di lasciarti affascinare. Se non è così, allora uno stacca la spina. Ma è un egoi¬smo… ». E poi, aggiunge ridendo, «chi può dire che non trovino la 'penicillina del 2008' per la malattia? Io ho grandi progetti per il futuro, ancora tanti traguardi da raggiunge¬re.
Prima di tutto voglio vedere i miei figli crescere, studiare, sistemarsi». E scherzando cerca di piazzare il più grande, Andrea, 20 anni, con Maria , l’infermiera… «Sto anche scrivendo un libro», con lettere, pensieri, ri¬flessioni. «Voglio aprire una fondazione a mio nome, per raccogliere fondi. È necessario che noi ammalati possiamo vivere con strumenti come quel¬lo attraverso cui parlo con te. Per questo ho deciso di riprendere i contatti con tanti del mondo in cui ho vissuto per anni. Ho appe¬na contattato Braida del Milan per parlare con Gal¬liani, per esempio. E qual¬cuno, come il presidente dell’Udinese Pozzo, mi ha già risposto».
Mi mostra il suo lavoro sul computer, le sue lettere… dice che ha un sacco di cose da fa¬re. Sono passate due ore da quando siamo arrivati. Mentre ci salutiamo guardo ancora la finestra aperta. E in macchina torno a pensare a quel gol, a quel ragazzino che lo vedeva come un eroe. Dopo diciotto anni ho scoperto la verità. Era solo un uomo. Un vero uomo.
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