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« Torna agli articoli di Riccardo Cascioli
Quasi la metà della popolazione mondiale non ha accesso ad acqua sufficiente per soddisfare le esigenze fondamentali, e circa 800 milioni di persone non hanno neanche la disponibilità di acqua bevibile. Basterebbero questi pochi dati per rendersi conto di quanto sia necessario porre il problema acqua in testa all'agenda di politica internazionale. E' anche lo scopo del VI Forum mondiale dell'acqua che è in corso in questi giorni a Marsiglia, dove si cercherà di mettere a punto delle proposte precise per garantire quello che dovrebbe essere considerato un diritto umano fondamentale.
Attorno al tema acqua ci sono però una serie di luoghi comuni e spinte ideologiche che equivocano sulle cause del problema e che quindi spingono verso soluzioni inutili o addirittura controproducenti. E purtroppo si deve registrare con grande dispiacere che ad alimentare la confusione ci si è messo anche il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace con il documento pubblicato nei giorni scorsi, proprio in occasione del Forum di Marsiglia (peraltro da quando sono stati rinnovati presidente e segretario non è la prima volta che il Pontificio Consiglio se ne esce con documenti non particolarmente felici).
Ad ogni modo vanno precisate alcune questioni chiave:
Anzitutto, la crisi dell'acqua non è nella disponibilità, ma nell'accesso. Vale a dire che non c'è poca acqua, globalmente, ma ci sono una serie di motivi per cui tante persone non vi accedono, analogamente a quanto accade per il cibo. Tante per dare un'idea, posto che secondo le Nazioni Unite in media ogni persona ha bisogno di un minimo di 50-100 litri al giorno di acqua per bere, lavarsi, cucinare e servizi igienico-sanitari, oggi ce ne sono disponibili – sempre globalmente - 5700 a testa. Considerato che nell'Unione Europea il consumo pro capite al giorno è intorno ai 600 litri e negli Usa 1.400, appare evidente che il problema non sta nella disponibilità (per i dettagli cfr. R. Cascioli-A. Gaspari, I padroni del pianeta, Piemme 2009).
Il problema dunque è comprendere quali siano le ragioni del mancato accesso. Alcune barriere che impediscono l'accesso all'acqua sono naturali. Le precipitazioni non si distribuiscono uniformemente sulla superficie della terra: tanto per fare un esempio, l'Islanda può contare su una disponibilità di circa 2 milioni di litri pro capite al giorno, mentre il Kuwait si deve accontentare di appena 30 litri. E anche le precipitazioni non si distribuiscono uniformemente durante l'anno. Inoltre ci sono aree molto ricche d'acqua (vedi i Grandi laghi in Africa e il bacino del Rio delle Amazzoni) e altre che sono decisamente aride (vedi il Medio Oriente).
Eppure non è questo il problema principale. Infatti, paesi che hanno una grave scarsità naturale di acqua – vedi Israele e Kuwait – non hanno alcun problema di accesso mentre popolazioni che abitano in zone ricche di acqua – come i Grandi Laghi in Africa – sono quelle che maggiormente soffrono di indisponibilità.
Come mai? La prima differenza sta nello sviluppo e nell'uso di tecnologie che in paesi sviluppati permettono di sopperire alle barriere naturali: così Israele ha sviluppato tecnologie che permettono di risparmiare acqua per l'irrigazione, mentre in Kuwait si sono realizzati progetti per la desalinizzazione dell'acqua di mare. Il principale impedimento all'accesso all'acqua è quindi il sottosviluppo che, tra l'altro, non permette di investire anzitutto sulla formazione e sulla ricerca.
Ed è ben curioso che proprio il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace non sottolinei con forza questo aspetto, che pure è un caposaldo della Dottrina sociale della Chiesa. Si preferisce invece prendersela con la "logica mercantile", dando l'idea che a impedire l'accesso all'acqua siano le logiche di profitto di non meglio precisate multinazionali che – avendo interesse esclusivo ai propri profitti anziché alla destinazione universale dei beni – imponendo dei prezzi alti tagliano fuori dall'accesso all'acqua le popolazioni più povere. E per questo il documento vaticano chiede l'istituzione di "corti di giustizia" per "individuare i danni causati al bene dell'acqua e proporre possibili riparazioni o sanzioni".
In realtà il sottosviluppo è anche alla base del fattore cruciale che impedisce l'accesso all'acqua, cioè le guerre. Basti pensare all'Africa, dove si concentra l'80% del problema idrico mondiale.
Secondo un Rapporto pubblicato nel 2007 dalle organizzazioni non governative Oxfam, Safeworld e Iansa, ogni anno l'Africa perde "almeno 18 miliardi di dollari a causa di guerre, guerre civili e insorgenze". Dal 1990 al 2006 sono stati "persi" circa 300 miliardi di dollari, una cifra folle "equivalente all'ammontare nello stesso periodo degli aiuti internazionali dai principali paesi donatori". E' per questo motivo che paradossalmente il problema dell'accesso all'acqua è particolarmente acuto nella zona dei Grandi Laghi africani, che pure è uno dei bacini di acqua dolce più grande al mondo.
Le guerre e la costante instabilità politica rendono impossibile investire nelle necessarie infrastrutture, sia perché i soldi pubblici vengono investiti in armi anziché in cose necessarie per la popolazione, sia perché – anche ci fossero i fondi – nessuno si arrischierebbe a mettere mano a delle opere che rischiano di essere distrutte il giorno dopo.
Sempre guardando all'Africa l'altra piaga che impedisce l'accesso all'acqua è la corruzione, come messo in evidenza dal Rapporto 2008 sulla Corruzione Globale curato da Transparency International, dedicato proprio ai crimini nel settore idrico. In questo caso ingenti quantità di denaro destinato a garantire il massimo accesso possibile all'acqua prendono invece la strada delle tasche di singoli e organizzazioni collusi con dittatori e governi. Il rapporto punta l'indice contro le "classi politico-burocratiche corrotte" dei paesi poveri, che "mantengono deliberatamente in vita sistemi economicamente inefficienti ma che si rivelano per loro politicamente vantaggiosi".
Soprattutto nei paesi in via di sviluppo sono quindi proprio i governi e le gestioni burocratiche ad essere di ostacolo al godimento di questo diritto.
E' chiaro dunque che la strada per superare il problema non sta in una ulteriore statalizzazione – fosse anche sovranazionale, magari sotto il cappello dell'Onu – ma al contrario in una liberazione delle risorse umane dei paesi poveri. Per questo è necessario favorire e accelerare lo sviluppo dei singoli paesi puntando sull'educazione, sul controllo degli aiuti internazionali, sulla soluzione dei conflitti.
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