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« Torna agli articoli di Rodolfo Casa
Le elezioni politiche ungheresi del 2018 si sarebbero potute decidere sugli ottimi risultati economici conseguiti dal governo della coalizione Fidesz-Kdnp negli ultimi otto anni e sui vantaggi che alle classi popolari sono venuti dalle politiche governative. Negli ultimi tre anni il Pil è cresciuto sopra il 4 per cento e la disoccupazione è scesa al 3,8 per cento grazie agli investimenti esteri e all'osmosi con l'economia tedesca, che subappalta all'Ungheria molte fasi delle sue produzioni industriali. Ciò ha permesso di aumentare gli importi delle pensioni, ridurre quelli delle bollette di gas ed elettricità, istituire sussidi per le famiglie numerose, "salvare" le famiglie che avevano sottoscritto mutui per la casa in franchi svizzeri, ecc. Argomenti validissimi per la propaganda del governo uscente.
Oppure le elezioni si sarebbero potute decidere sui sempre più numerosi scandali che hanno visto al loro centro ministri dell'esecutivo Orban, imprenditori amici del partito Fidesz, personalità nominate a posti di responsabilità pubblica dal governo, e sulle difficoltà a perseguire in giustizia i casi che li riguardano a causa della crescente subalternità del sistema giudiziario al potere politico. L'insofferenza crescente per il sistema di potere che si è consolidato negli ultimi otto anni, con la sua casta di privilegiati, avrebbe potuto aiutare l'opposizione a risalire la china e, se non proprio a detronizzare Orban, almeno a impedire che l'amministrazione uscente riconquistasse quella maggioranza parlamentare dei due terzi che le permette di fare tutto ciò che vuole.
LA MINACCIA ISLAMICA E L'ONDATA DI CLANDESTINI
Invece le elezioni si sono decise su temi apparentemente lunari come la minaccia islamica, l'ondata di migranti illegali (in un paese dove le domande d'asilo l'anno scorso sono state appena 3.397), la prospettiva che la barriera sul confine meridionale costruita nel 2015 al culmine della crisi migratoria venisse smantellata (in realtà nessun partito aveva questo punto nel suo programma), i tentativi di distruggere l'identità dell'Ungheria da parte del finanziere George Soros. Questi sono stati i temi ricorrenti e dominanti dei comizi di Viktor Orban e degli altri esponenti di Fidesz, insieme alla assicurazione che la conferma del governo uscente avrebbe salvato l'Ungheria da queste catastrofi. Fra le misure che Orban ha promesso in caso di vittoria alle elezioni spiccava quella di introdurre una legge che tasserebbe pesantemente le donazioni estere alle Ong ungheresi che si occupano di migranti secondo le prospettive e i valori di George Soros anziché quelli del governo ungherese. Gli elettori hanno ascoltato, si sono recati alle urne con una tasso di partecipazione del 68 per cento (quasi 7 punti in più della precedente tornata del 2014) e hanno premiato la coalizione guidata da Orban col 48,9 per cento dei voti.
Perché nell'Ungheria del 2018 la questione delle frontiere e dei migranti è più decisiva per l'esito delle elezioni degli argomenti che riguardano l'operato in bene e in male del governo? Perché la vertenza che si trascina con l'Unione Europa dal 2015, cioè il rifiuto da parte di Budapest di ricollocare 1.294 richiedenti asilo provenienti da Italia e Grecia, è così importante per governanti ed elettori ungheresi? I media e l'establishment dell'Europa Occidentale e Bruxelles agitano gli spauracchi della xenofobia, dell'antisemitismo, delle risorgenze fasciste o della penetrazione strisciante della Russia di Putin. Un misto di arroganza e ignoranza: Viktor Orban è stato dissidente antisovietico, si è laureato con una tesi su Solidarnosc, ha studiato a Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione di George Soros (proprio lui!), la sua formazione politica è da sempre affiliata al Partito Popolare Europeo. Non più tardi del 2006 il partito socialista (Mszp) raccoglieva i voti del 43 per cento degli ungheresi: domenica scorso si è fermato a 12,3. Al secondo posto è finito Jobbik, fino a pochi mesi fa impresentabile partito antisemita e criptonazista, ma riabilitato agli occhi delle cancellerie europee da quando ha seppellito l'ascia di guerra contro Bruxelles e si è dato disponibile per una grande alleanza di tutti i partiti ungheresi contro Orban. Jobbik ha ricevuto il 19,3 per cento dei voti. Questo significa che quasi il 70 per cento dei votanti di domenica scorsa sceglie partiti nazionalisti contrari all'immigrazione di massa in Ungheria. Lo si poteva già intuire dal risultato del referendum contro le quote europee di migranti che il governo Orban promosse nel 2016: 3 milioni e 316 mila elettori - cioè 1 milione in più di quelli che avevano votato Fidesz alle elezioni di due anni prima - votarono contro la decisione europea di redistribuire obbligatoriamente anche in Ungheria una parte dei migranti arrivati in Italia e Grecia.
LA PAROLA CHIAVE: SOVRANITÀ
La parola chiave per capire quello che a livello politico succede in Ungheria e in altri paesi dell'Est che hanno aderito alla Ue (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) non è xenofobia, ma sovranità. L'Ungheria, come gli altri paesi dell'Europa orientale i cui elettorati hanno votato in massa forze nazional-conservatrici o populiste euroscettiche, è una nazione che ha trascorso metà della sua storia sotto il tallone di potenti vicini: nel suo caso ottomani, austriaci, sovietici. Ha perduto popolazione e territorio in conseguenza delle due guerre mondiali. Non ha partecipato a imprese coloniali, non ha praticato l'imperialismo nei confronti dei continenti extraeuropei nel XIX o nel XX secolo, dunque non nutre complessi di colpa verso africani e mediorientali. Ha aderito all'Unione Europea per godere della prosperità e dell'indipendenza che fino ad allora gli erano state per lungo tempo negate. Ora queste nazioni scoprono che il prezzo della prosperità che l'adesione alla Ue ha certamente favorito è la progressiva rinuncia alla propria indipendenza a vantaggio di una integrazione dove tutte le culture e le storie sono tenute a sciogliersi in un'indistinta unità fondata sulla libertà di mercato e sui diritti individualistici.
Liberatisi della dottrina brezneviana della "sovranità limitata", in base alla quale nessun paese socialista poteva sperare di riavvicinarsi al capitalismo senza che gli altri paesi socialisti, a cominciare dall'Unione Sovietica, intervenissero con le buone o con le cattive per riportarlo all'ovile, oggi i paesi dell'Est si trovano di fronte a una nuova versione di quella dottrina, concepita stavolta a Bruxelles: nessun paese della Ue può opporsi al progetto di sempre maggiore integrazione fra i paesi aderenti, compresa la delicata materia delle politiche dell'immigrazione, senza rischiare di perdere i diritti di voto e i finanziamenti dei Fondi di coesione. Ma questa linea dura contro Budapest e Varsavia che trova ogni giorno nuovi sostenitori in Europa occidentale e a Bruxelles rischia di aggravare la crisi di coesione dell'Unione anziché risolverla. Occorrerebbe invece contemperare i processi di integrazione con la salvaguardia delle identità nazionali. Come scrive il filosofo Mathieu Bock-Côté: «Il diritto alla continuità storica è vitale per un popolo».
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo sottostante dal titolo "La vittoria di Orban, leader di un'Europa diversa" parla delle elezioni per il rinnovo del Parlamento ungherese dove la coalizione di centrodestra guidata da Viktor Orban, ha vinto con un'ampia maggioranza. Come era prevedibile i mass media dell'Europa occidentale suonano le campane a lutto per la democrazia ungherese. Perché non ne capiscono le ragioni. Vediamole nell'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 10 aprile 2018:
Come era prevedibile, nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento ungherese, la coalizione di centrodestra costituita dal partito Fidesz e da quello Cristiano Popolare Democratico, ha vinto con un'ampia maggioranza. Viktor Orban è riconfermato premier per il suo quarto mandato (il terzo consecutivo). Come era prevedibile, la stragrande maggioranza dei media europei occidentali, parla di "fine della democrazia" ungherese. Pare che Budapest sia pronta a contendere la palma a Minsk (Bielorussia) per il titolo infame di "ultima dittatura d'Europa". Ma è così tragica la situazione?
Partiamo dai numeri. Il centrodestra ha vinto la maggioranza dei seggi, con il 48,5% dei voti. Il secondo partito è ancora più a destra, il nazionalista Jobbik, con il 19,5% dei voti. La strategia di questa formazione, guidata (fino alle sue dimissioni, ieri) da Gabor Vona, consisteva nel darsi un volto moderato. Non ha pagato. Negli ultimi sondaggi, poco meno del 20% degli elettori di Jobbik si diceva pronto a votare per un candidato di sinistra, pur di scalzare Orban dal potere. Al tempo stesso, il 25% circa degli elettori di sinistra si diceva pronto ad accettare un candidato di Jobbik. Benché questo fosse, fino a meno di cinque anni fa, un partito che non negava il suo antisemitismo e usava un frasario nazionalista da anni '30. Il risultato di questa operazione di sdoganamento di Jobbik presso l'elettorato moderato e di sinistra è uno stallo: né crescita, né un calo vertiginoso. Ma sostanzialmente è una sconfitta che ha provocato le dimissioni di Vona. Tracollo a sinistra, invece: messi assieme, il partito Socialista (Mszp), il nuovo partito ecologista Dialogo e il nuovo movimento Insieme, hanno raccolto il 13% dei consensi. Alla loro sinistra, i Verdi (Lmp) hanno preso il 7%. E la Coalizione Democratica, partito moderato di sinistra, il 5,6% dei voti.
Come in tutti i paesi occidentali, ormai, la tendenza è sempre quella: la sinistra vince alla grande nelle città, la destra nelle aree rurali. L'Ungheria non fa eccezione: le opposizioni di sinistra hanno conquistato i due terzi dei seggi a Budapest. La sinistra aveva sperato di ribaltare a proprio vantaggio le elezioni, quando a febbraio Fidesz era dato in calo in tutti i sondaggi. Il 25 febbraio, nella città di Hodmezovasarhely, considerata una roccaforte del partito di Orban, aveva vinto, con il 57,5% dei voti, un candidato sindaco indipendente, Peter Marki-Zay, sostenuto sia da Jobbik che dalla sinistra. Le opposizioni, tuttavia, non sono riuscite a ricreare la stessa coalizione anche su scala nazionale e hanno perso. Questi risultati smentiscono l'immagine di un'Ungheria autoritaria, ormai solo formalmente democratica. La democrazia appare invece viva, vegeta e molto combattuta: anche i dati sull'affluenza (oltre il 70%) sono i più alti dal 1998.
Come si spiega il terzo mandato consecutivo di un leader inviso al resto dell'Ue? John O'Sullivan, osservatore della National Review (rivista di riferimento del conservatorismo americano, dunque ben lontana dalle simpatie per movimenti della destra "populista" europea) esclude la spiegazione, facile, quella del controllo della macchina statale e mediatica da parte del premier. "Non si può più dire credibilmente che Orban stia promuovendo la sua rivoluzione di nascosto e con metodi non democratici. Gli elettori sanno ormai esattamente cosa voglia fare Orban, così come conoscono il programma dei suoi oppositori. E hanno votato per lui (...) Non si può neppure più spiegare la vittoria con l'egemonia della destra nei media, affermazione comunque esagerata: ci sono giornali, riviste, canali televisivi, siti Web, che propagano le tesi delle opposizioni, sia di destra che di sinistra e sono tanto brutali quanto la è la macchina della propaganda di Fidesz". Secondo la classifica di Freedom House (una Ong tutt'altro che tenera con le destre) sulla libertà di stampa, l'Ungheria è nella fascia dei paesi "gialli", cioè "parzialmente liberi". Detto così parrebbe un brutto risultato, ma è in buona compagnia: c'è anche l'Italia nella stessa categoria. Se noi riteniamo di vivere in un paese in cui la stampa è sufficientemente libera da non falsare il risultato elettorale, allora anche l'Ungheria lo è.
Il fatto è che Orban ha vinto, perché la sua politica ha convinto. Prima di tutto perché l'economia va bene. Benché non sia nell'euro e non voglia entrarci nel breve periodo, l'Ungheria si dimostra fiscalmente più responsabile di tanti paesi (specialmente quelli mediterranei) dell'eurozona. Il suo debito pubblico si è ridotto di 6 punti percentuali rispetto al Pil, il deficit è stato dimezzato, i salari sono aumentati del 10%, la disoccupazione è calata fino al 5,2% (la metà di quella italiana), il Pil è cresciuto del 2,9%, al di sopra della media europea. Quindi è un periodo di vacche grasse e, se l'economia non è tutto, almeno ha contribuito ad accrescere la popolarità del governo.
Ma, appunto, l'economia non è tutto e altri due fattori hanno contribuito a determinare la vittoria del centrodestra ungherese: lo stop all'immigrazione (l'Ungheria, nel 2015, ha costruito il muro per fermare la rotta balcanica) e la lotta contro una Ue troppo burocratica e troppo poco democratica. "Nelle discussioni di ordine morale ed etico non dobbiamo cedere terreno, perché dobbiamo difendere l'Ungheria per com'è oggi - aveva dichiarato Orban a febbraio - Dobbiamo affermare che non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri. Non lo vogliamo". Queste sono parole che hanno fatto rizzare i capelli in testa a molti osservatori europei. Suonano razziste, "sporche". Suonano come bestemmie contro il multiculturalismo, la diversità, il meticciato, ideali della sinistra europea. Ma contro la retorica dell'immigrazione, Orban ha raccolto a man bassa il voto degli ungheresi, specialmente quelli delle aree rurali. E' anche un voto contro l'Ue, con le sue logiche centraliste di redistribuzione dei rifugiati, a cui l'Ungheria si è opposta. Può piacere o no, ma non si può parlare di vittoria rubata. Semmai è l'ulteriore conferma di un trend europeo ormai consolidato.
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