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Irene Vilar è una donna statunitense, di origini portoricane, di 40 anni. Da giovane ha studiato nei college-simbolo della cultura progressista radical-chic a New York, quindi si è avvicinata ai circoli letterari e filosofici di idee democratiche e taglio femminista. La sua storia, raccontata nel libro-scandalo Impossibile Motherhood: testimony of abortion addict (“Maternità impossibile: la testimonianza di una donna dipendente dall’aborto”), pubblicato in Italia da Corbaccio col titolo Scritto col mio sangue, potrebbe sembrare apparentemente una storia di disagio estremo ma non lo è.
La donna nel libro racconta di aver abortito 15 volte in 17 anni (la prima volta quando ne aveva 16, l’ultima a 33) per fare un dispetto al marito, un professore di storia trent’anni anni più vecchio di lei, che «non voleva figli». Proprio così: nel libro l’autrice racconta di aver abortito 15 volte di seguito non per paura di morire o gravi patologie (non che tali motivi siano accettabili per sopprimere un essere umano innocente ovviamente) ma semplicemente per vendicarsi dell’autorità del marito che gli aveva imposto di non aver figli. Così, ogni volta l’autrice rimaneva incinta ma poi, di fronte alla possibilità di essere lasciata, non aveva la forza psicologica di proseguire la gravidanza e abortiva. Si tratterebbe quindi di una vera e propria dipendenza dall’aborto, da analizzare e valutare come tale, alla stregua di altre diffuse dipendenze della cultura dello sballo: fumo, droga, alcool etc. Dopo un periodo di analisi l’autrice ora sarebbe guarita e vivrebbe felicemente con un altro uomo e due figlie avute da un secondo matrimonio.
Il caso, destinato a far discutere, esemplifica tuttavia in modo oggettivo gli amari “frutti” della stagione dei cd. diritti civili, seguiti alla rivoluzione culturale del 1968. L’autrice dice di considerare l’aborto «un diritto per cui molte persone hanno combattuto» e il fatto che personalmente ne abbia «abusato» non può essere «un argomento per limitare questo diritto». Ammette inoltre di sapere benissimo che avrebbe potuto evitare di rimanere incinta ma «non lo facevo appositamente». «Mi sono assunta le mie responsabilità […] resta il fatto che gli incidenti succedono». Quindi continua a dichiararsi pro-choice (cioè a sostenere la legittimità della legislazioni abortiste, da interpretare a suo dire come un diritto fondamentale per la donna) aggiungendo che se per lei l’aborto ha rappresentato «senza dubbio un elemento di autodistruzione», tuttavia ciò non significa che l’aborto «lo sia in sé e per sé». Non sarebbe quindi vero che esso è sempre un dramma per la donna anche perché «le statistiche britanniche, americane e canadesi dicono che la maggioranza di chi ha abortito sono donne educate e benestanti con sei o sette gravidanze interrotte alla spalle»(!).
Bisogna insomma comprendere che il potere riproduttivo è un «potere grandissimo» di cui la donna dispone e che essa deve poter esercitare liberamente per realizzarsi al meglio, anche rifiutando la maternità. Solo allora, «saremo in grado di parlare dell’aborto senza senso di colpa, senza senso della vergogna e saremo in grado di fornire alle donne uno strumento migliore e più forte per analizzare e gestire il potere della fecondità, soprattutto
a partire dall’età adolescenziale». Come si vede il linguaggio rimanda a toni tipicamente femministi: parole come mamma, figlio e famiglia sono completamente scomparse.
Al loro posto si parla di «potere della fecondità» (mai di maternità), di «strumenti» da utilizzare, di «donne» da liberare. Sembrerebbe davvero un manifesto datato della Contestazione del 1968 e invece è un’intervista di una giovane e combattiva femminista del 2010, accolta con favore dal gotha della cultura liberal: il “New York Times”. Ma proprio questo è il dato rilevante. L’autrice, con rara e disarmante sincerità, svela finalmente il vero volto dietro la legalizzazione dell’aborto in Occidente. I dati che fornisce su Gran Bretagna e Usa infatti richiamano quelli italiani. Come dimostrano le ultime Relazioni annuali del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194, nel nostro Paese il 33% delle donne che ogni anno abortiscono lo hanno già fatto in precedenza.
Tra queste, una su quattro si trova al quarto aborto (!). Così, la testimonianza della Vilar, per quanto raccapricciante, rappresenta in ultima analisi nient’altro che una coerente applicazione del principio assoluto di libertà di scelta, ribadito con altrettanta franchezza dallo stesso Presidente Barack Obama, nuova icona internazionale dell’“umanesimo laico”, poco prima di essere eletto: «Se mia figlia commettesse un errore (cioè dovesse rimanere incinta in giovane età, ndr), non vorrei che fosse punita con un figlio (cioè la farei abortire, ndr)».
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