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Quando l’«inchiesta » è a senso unico. La giovane scrittrice Silvia Ballestra confeziona un libro sull’aborto a tesi precostituite, eludendo il confronto con le smentite ai suoi pregiudizi.
Primo: avere una tesi. Secondo: dimostrarla.
Ma senza realmente ascoltare nessuno, né captando i segnali della società. Così, se la tesi è che oggi il diritto di abortire in Italia non è garantito, che la Chiesa con un manipolo di «laici devoti» criminalizza le donne e le costringe ad abortire all’estero perché qui ci sono solo obiettori, beh, il gioco diventa facile: si descrivono i volontari del Movimento per la vita come fanatici che brandiscono feti, i giornalisti che osano obiettare come beceri misogini che idolatrano la disabilità dei bambini, e i medici abortisti come gli unici veri amici delle donne. Un bel risultato, per un’'inchiesta '.
Di pensiero unico laico e – bisogna dire – un po’ veterofemminista si nutre l’ultimo libro di Silvia Ballestra, scrittrice residente a Milano e ora convertita al giornalismo investigativo. Piove sul nostro amore (Feltrinelli, 176 pagine, euro 14) si presenta – e viene amichevolmente recensito – come un reportage sull’aborto oggi in Italia, di cui l’autrice ha sentito l’urgenza nel momento in cui Giuliano Ferrara ha lanciato la sua «lista pazza» pro-life.
La Ballestra si è intrufolata in incognito nei corsi di formazione per volontari del Movimento della vita, ma partendo da casa già «allarmata e lievemente impressionata», salvo poi essere ben lucida quando sbeffeggia relatori e partecipanti in parti uguali (il paragone più lusinghiero: «Nazisti dell’Illinois»). Nel capitolo «La vita, non la conoscono» si rievoca la drammatica vicenda di Seveso. Il succo è che grazie alla nube tossica l’aborto legale arrivò in Italia e che per merito di medici generosi e illuminati tante donne affrontarono la «tragedia delle eventuali malformazioni dei feti». In 56 abortirono, 800 proseguirono la gravidanza, scrive la Ballestra rievocando il clima di acceso dibattito tra i gruppi radicali e femministi (ovviamente: illuminati) da una parte e cattolici («completamente frastornati») dall’altra. L’autrice dimentica di dire che nel clamore ideologico di allora le uniche vittime furono proprio i 56 (o 33) feti abortiti: perché fu accertato che nessuno di loro aveva malformazioni, come documenta Carlo Casini nel suo libro A 30 anni dalla legge 194, come d’altra parte nessuno dei bambini nati in seguito.
Ma contano le battaglie, non le donne, né tantomeno i bambini. E nemmeno la verità. Altrimenti perché ignorare la drammatica autocritica del professor Candiani, all’epoca di Seveso primario ostetrico alla Mangiagalli, che dopo aver autorizzato ed eseguito le 'interruzioni', nel 1988 confessò che quello fu l’episodio più triste della sua vita e che le donne furono «condizionate da pittoreschi personaggi che incitavano all’aborto con sinistri avvertimenti»? E allora, chi non «conosce» la vita?
Incomprensibile poi la chiusura della Ballestra al dialogo o al confronto: sbeffeggia i volontari ma non parla con nessuno di loro offrendone un’immagine grottesca. Né si pone domande di fronte alla testimonianza di una 17enne pugliese che racconta il suo aborto e che confessa: «In verità io non sono sicura di aver scelto, io temo di non avere avuto scelta». Ecco, la scelta.
Se è sicura, Silvia Ballestra, che l’aborto sia un diritto, è ugualmente convinta che esso sia sempre una scelta, trent’anni fa come oggi? O piuttosto è una strada obbligata, lungo la quale non si offre un’alternativa a chi in cuor suo l’attende? La 194, che sarebbe così gravemente boicottata dai medici obiettori, è in verità gravemente disapplicata nella sua parte preventiva.
Ma questo l’'inchiesta ' nemmeno lo considera.
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