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Venti Paesi boicottano oggi la cerimonia di consegna del Premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo, per paura di ritorsioni di Pechino. Il governo cinese attacca i Paesi occidentali e si inventa il Premio Confucio. Dall’altra parte Usa ed Europa rispondono chiedendo – peraltro neanche a voce troppo alta - il rispetto dei diritti umani. Ma dietro l’assegnazione del Premio Nobel si gioca soprattutto una partita diplomatica e politica, per la quale la questione dei diritti umani è solo un pretesto. Al di là della scelta degli accademici norvegesi, tra Cina e Occidente è in corso una battaglia per il controllo delle relazioni internazionali per cui ogni pretesto è buono: dalle politiche climatiche ai diritti umani, dalla nomina di un vescovo alla crisi nucleare coreana.
Sul tema dei diritti umani, invece, già da anni l’Occidente si è allineato al pensiero del regime comunista cinese. Qual è infatti la posta in gioco quando si parla di diritti umani? La loro universalità o meno. Vale a dire che si tratta di decidere se ci sono diritti naturali che appartengono a ogni singolo uomo per il solo fatto di esistere, in qualsiasi cultura e in qualsiasi tempo, oppure se i diritti dipendono dalle situazioni locali e dalle singole culture. Ad esempio: il diritto alla vita è un valore assoluto per tutti o dipende dalle circostanze? La libertà religiosa e di coscienza è un diritto inalienabile di ogni essere umano oppure può essere ridotta per cause di forza maggiore?
Il regime cinese ha sempre sostenuto che i diritti umani dipendono dalla cultura: in quella cinese, si dice, il diritto alla ciotola di riso viene prima della possibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero, ed è meglio rinunciare a parlare se questo può aiutare a sfamarsi. Questa è anche la prassi seguita da tanti paesi africani e islamici, dove la poligamia o la mutilazione genitale femminile – tanto per fare un esempio – vengono giustificate con le culture tradizionali di quei paesi. Con il risultato – va notato – che si perpetua in questo modo il potere nelle mani di chi ce lo ha sempre avuto, siano essi imperatori, capi di partito o capi tribù.
Contro questa concezione sta la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, promulgata nel 1948 all’ONU, secondo cui invece ogni uomo, per il solo fatto di venire al mondo, è titolare di diritti che valgono in qualsiasi epoca e in qualsiasi cultura. E allora sembrò evidente che era proprio questo riconoscimento – insieme a quello che considera la famiglia come cellula fondamentale della società – a poter evitare altre tragedie come il nazismo e il comunismo, dove era lo Stato a determinare la gerarchia dei diritti. Ma già da molti anni i Paesi occidentali hanno abbandonato questa visione in nome del diritto positivo, arrivando ai giorni nostri a battersi per quelli che vengono definiti “nuovi diritti”. Dall’aborto all’eutanasia, dall’identità di genere all’espropriazione della famiglia nei compiti educativi, Europa e amministrazioni “liberal” Usa combattono al loro interno e nelle sedi internazionali per affossare il diritto naturale e il primato della persona sullo Stato. E oggi anche la libertà di coscienza viene apertamente attaccata, come abbiamo visto recentemente al Consiglio d’Europa, per poter imporre l’aborto come diritto fondamentale. Un esempio evidente di questa deriva la si può constatare anche nella resa incondizionata del nostro sistema giuridico davanti alle “pretese culturali” delle comunità di immigrati: dall’accettazione della poligamia, alla tolleranza delle mutilazioni genitali femminili fino all’introduzione della legge coranica nei tribunali europei.
E dunque, come potrebbe oggi l’Occidente opporsi seriamente a Pechino in nome dei diritti universali? Infatti lo fa solo brandendo alcuni diritti particolari (come l’instaurazione di un sistema democratico) contro altri diritti particolari (il diritto alla stabilità di un grande Paese come la Cina), in realtà giocando un’altra partita. E questo spiega anche il perché da decenni nel rapporto con la Cina la questione dei diritti umani, al di là delle dichiarazioni di principio, passa in secondo piano rispetto alle ragioni economiche.
Il Premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo allora, oltre le scaramucce diplomatiche, diventa occasione per prendere coscienza della necessità di ricostruire la società a partire dal diritto naturale, prima che finiamo tutti nella rete del totalitarismo globale.
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