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Se l'operazione Odyssey Dawn in Libia ha da essere un monito per gli altri dittatori, come afferma qualche parlamentare italiano, e un segnale ai popoli oppressi affinché sappiano di non essere più soli, se cioè l'offensiva contro il colonnello Gheddafi non è che l'inizio, allora non c'è che da compilare il lungo elenco scegliendo i criteri con cui stabilire l'ordine degli interventi.
Uno potrebbe essere la mancanza persino di mere parvenze di democrazia. Dal colpo di Stato con cui nel 1969 Gheddafi prese il potere, la Libia non è mai andata alle urne. Lo stesso vale per l'Eritrea dove Isaias Afewerki, il leader che l'ha portata all'indipendenza dall'Etiopia nel 1993 dopo una guerra durata 30 anni, non ha mai indetto delle elezioni.
Prima ancora c'è la Corea del Nord in cui dal 1945 non si è mai votato.
Un altro criterio può essere il grado di efficienza dell'apparato repressivo da abbattere e quindi la gravità delle violazioni dei diritti umani commesse. In questo caso, ai tre Stati citati si possono aggiungere sicuramente la Siria e Myanmar, per esempio, anche se in entrambi, così come nella maggior parte degli stati membri delle Nazioni Unite che tuttavia non si possono definire democratici, si svolgono elezioni con cui i rispettivi regimi pretendono di onorare i principi democratici.
Volendo agire per scopi umanitari nell'interesse degli oppressi, forse il criterio più opportuno per decidere i primi interventi è l'entità delle perdite umane e delle sofferenze inflitte da un regime. Probabilmente in prima posizione resta la Corea del Nord con le sue terrificanti condizioni di povertà, talmente isolata, però, da rendere impossibile una precisa quantificazione delle vittime. Secondo gli autori de Il libro nero del comunismo (Mondadori, 1999) ammonterebbero a non meno di due milioni.
Tra i leader attuali, a parte Kim Jong-il in Corea, il primato potrebbe spettare al presidente del Sudan, Omar Hassan el Bashir. Contro di lui la Corte penale internazionale ha spiccato nel 2009 un mandato d'arresto internazionale. El Bashir è accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità per la sua responsabilità nel conflitto del Darfur, la vasta regione occidentale in cui dal 2003 si stimano più di 200mila morti e oltre due milioni di sfollati e profughi. El Bashir non può essere processato dalla Corte penale internazionale per crimini commessi prima della costituzione della Corte stessa che risale al 2002.
Altrimenti, a quelle del Darfur, andrebbero aggiunte le vittime della guerra quasi ventennale, terminata nel 2005, che el Bashir ha scatenato contro le etnie del sud nell'ambito del processo di arabizzazione del paese da lui avviato nel 1989, anno in cui prese il potere con un colpo di stato. Si è calcolato che i morti siano stati due milioni e oltre quattro milioni gli sfollati e i profughi.
Restando in Africa, in Zimbabwe negli ultimi anni tre milioni di persone - un quarto della popolazione - sono espatriati nei paesi confinanti per sfuggire alla fame, e alle violenze del regime, e altri quattro milioni sono stati assistiti dalla comunità internazionale entro i confini. Il Paese, già in declino negli anni 90, ha ricevuto il colpo di grazia nel 2000 con l'esproprio di migliaia di fattorie per lo più di proprietà di cittadini bianchi ordinato dal presidente Robert Gabriel Mugabe: è stata la totale bancarotta che tuttavia non gli ha impedito di ricandidarsi nel 2008 e, constatata la sconfitta elettorale malgrado i consueti brogli, di infierire sulla popolazione ottenendo infine di svolgere un ulteriore mandato.
A suo carico inoltre vi sono la persecuzione delle minoranze e degli avversari politici, l'appropriazione a scopo personale di fondi internazionali di cooperazione, le violenze sistematiche che gli hanno meritato sanzioni internazionali. Il suo "regno del terrore" - come primo ministro dal 1982 e da presidente a partire dal 1987 - è iniziato con un bagno di sangue: la famigerata quinta brigata ai suoi ordini eseguì una vera e propria pulizia etnica uccidendo circa 25mila Ndebele, l'etnia del suo avversario Joshua Nkomo.
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