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A dieci anni dalla scomparsa (avvenuta a 97 anni il 2 settembre 1999) il nome e il prestigio di Margherita Guarducci, massima archeologa del cristianesimo ed epigrafista del secolo scorso, brillano di luce di accresciuta intensità nella ristretta cerchia degli studiosi del settore, ma anche tra i discenti e gli appassionati di storia classica e delle origini del cristianesimo. Sì, perché l’eminente ricercatrice, pur con interessi molteplici, capaci di penetrare con rara acribia il «mare magnum» dell’antichistica, è legata – non può non esserlo – a una scoperta che rivoluzionò le nostre conoscenze sulla scaturigine della religione cristiana e conferì alla Chiesa di Roma un prestigio e una legittimità ancora superiori a quelli, enormi, che già aveva. Si era nel 1953 e gli scavi sotto la Basilica di San Pietro, commissionati da Pio XII nel 1939 con lo scopo di indagare in modo scientificamente limpido le strutture originarie su cui venne innervata la più famosa basilica della cristianità, proseguivano lentamente e quasi languivano senza risultati concreti. Fu decisivo l’intervento di Margherita Guarducci a conferire impulso alle ricerche: unendo intuizione da detective al rigore di uno scavo sistematico, la ricercatrice fiorentina identificò la tomba dell’apostolo e primo Papa, ne completò il rilevamento e soprattutto ne determinò la datazione al primo secolo; decifrò con abilità certosina le iscrizioni sul famoso «muro G», prima ignote, con cui i primi cristiani, in una sorta di crittografia segreta per non essere scoperti, auguravano eterna serenità ai loro defunti e ai ministri della Chiesa appena nata; e soprattutto – a corollario di uno scavo condotto con i crismi del rigore assoluto – diede corretta e oggi quasi unanimemente accettata interpretazione ai poveri resti di ossa, rinchiusi in un loculo dello stesso «muro G»: l’esame antropologico rivelò che si trattava dello scheletro di un uomo sui 60-70 anni, avvezzo alla fatica (quindi anche un pescatore, al termine di un’esistenza di sofferenza), e l’analisi al microscopio fece comprendere che le ossa erano sporche della terra rossa del colle e dunque lì sepolte in antico. Insomma per la Guarducci non vi furono dubbi: si era in presenza delle reliquie del santo cui era dedicata la basilica, che fu dunque sepolto a Roma. La preparazione scientifica incontestabile, a cui si aggiunge una fertile produzione bibliografica (oltre 400 titoli tra monografie e contributi nel settore), ha portato la studiosa a insegnare Epigrafia greca all’università della sapienza e a dirigere la Scuola Nazionale di Archeologia; membro per 30 anni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, la Guarducci ha ricevuto riconoscimenti e lauree «honoris causa» da prestigiosi atenei di tutto il mondo. Una studiosa dunque capace di esprimere pareri autorevoli e in più occasioni destinati ad incidere: fu sempre lei che, nel 1980, smascherò la non autenticità della famosa «fibula praenestina», una fibbia d’oro che conserva quanto si pretendeva essere il più antico testo in lingua latina ed in realtà si rivelò l’incisione di un’iscrizione, eseguita ad arte su supporto originale ma ad opera di due falsari.
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