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Che quella italiana da repubblica parlamentare si stesse trasformando in repubblica presidenziale era già evidente da tempo. Almeno sin dall'intervento irrituale del presidente Giorgio Napolitano che impedì al governo di emanare un decreto che avrebbe salvato la vita di Eluana Englaro. Da allora gli interventi di Napolitano – pareri preventivi, messaggi trasversali, richieste di chiarimenti, pressioni di vario genere - si sono fatti sempre più frequenti e hanno interferito notevolmente nelle attività di governo. Al punto che di fatto – anche se non nella forma – nessun atto del governo aveva possibilità di farcela se non era d'accordo Napolitano. Rovesciando in questo modo l'articolo 89 della Costituzione che prevede invece che siano i ministri a dare legittimità agli atti del presidente della Repubblica.
A ciò hanno sicuramente contribuito anche i leader dell'opposizione – politica e sociale – e la grande stampa che invocavano a ogni piè sospinto l'intervento di Napolitano per bloccare le iniziative del governo. Peraltro negli ultimi tempi del governo Berlusconi l'appello a Napolitano era diventato uno sport di massa: lo ha fatto addirittura anche il Forum delle Associazioni familiari per chiedere una politica più equa nei confronti della famiglia, non rendendosi conto di avere a che fare con un signore che non ci penserebbe due volte a firmare una legge a favore delle unioni di fatto qualora gliela presentassero (e magari tra un po' la invocherà).
Ma nelle ultime settimane questa tendenza si è definitivamente consolidata: dapprima con la formazione del governo Monti, che non a caso in molti hanno chiamato il "governo del Presidente", e poi l'altro giorno con l'invito a procedere speditamente per concedere la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia.
Quanto al governo, il capo dello Stato ha mostrato grande abilità nel vestire i panni del salvatore della Patria in un momento di grave crisi (e così l'ha descritto la grande stampa), ma in realtà egli è stato piuttosto il regista di una operazione che viene da lontano: ha lentamente ma inesorabilmente ingabbiato l'azione del governo – che peraltro riusciva benissimo già da solo a farsi del male – per poi pilotare il suo superamento con un altro governo. Tecnico, come a dire "neutro": in realtà, non solo ha fatto in modo che raccogliesse una maggioranza plebiscitaria, comunque ben diversa dall'indicazione emersa dalle urne tre anni fa; ma ha addirittura ispirato un ministero (quello della Coesione territoriale, un assoluto inedito in Italia) in aperto contrasto con quell'idea di federalismo che aveva contraddistinto il governo Berlusconi e per il quale – piaccia o no – era anche stato votato.
Ma una volta insediato Monti, Napolitano ha pensato bene di avocare a sé anche la funzione legislativa – di cui ovviamente la Costituzione non fa cenno – affermando con forza la necessità che il Parlamento approvi in fretta una legge per concedere la cittadinanza ai figli di stranieri che nascono sul nostro territorio (anche questo punto in aperto contrasto con la maggioranza uscita dalle elezioni e che non è ancora decaduta).
In questa sede, non importa sapere se la proposta di Napolitano sia o meno condivisibile (ne parleremo in un altro articolo), quello che va rilevata è l'assoluta inappropriatezza di interventi del genere: definire "follia" l'attuale legislazione in materia di cittadinanza non può rientrare in alcun modo nei compiti previsti del capo dello Stato. Allo stesso modo non si può tollerare che il capo dello Stato assuma poteri di indirizzo legislativo in qualsivoglia materia. E dovrebbero rendersene conto tutti quei giornali – anche non di sinistra – che incensano Napolitano a ogni pie' sospinto.
Addirittura in questi giorni abbiamo assistito a una ulteriore esaltazione del capo dello Stato, con una gara fra diversi quotidiani per presentare brani del libro in uscita di Napolitano sui 150 anni d'Italia. E anche questa, a dire il vero, è una bella metafora: l'elezione a simbolo dell'unità d'Italia di un uomo, rispettabile e signorile quanto si voglia, che però ha costruito la sua carriera politica a servizio di una potenza straniera, e senza mai pronunciare neanche una parola di autocritica.
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