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C'è una cosa che più delle altre mi inquieta, nella palude relativista nella quale stiamo sprofondando. E' la nostra incapacità (o non volontà) di comunicare ai giovani ciò che è bene e ciò che è male. Non moralisticamente (questo si fa e questo no-perché-di-no). "Bene" e "male" dando ragioni ragionevoli. "Bene" e "male" per la propria vita, per la salute del corpo della mente dell'anima. Per essere felici davvero.
Chi ha la mia età o giù di lì è cresciuto in un'epoca in cui, ancora, la famiglia, la scuola, la società gliel'ha trasmessa, la differenza. Educare voleva dire anche questo. Liberi poi di trasgredire, di deviare, di cadere. Ci si rialzava e si riprendeva la strada. A noi, questo hanno insegnato. Oggi no. Non era mai accaduto nella storia dell'uomo: siamo la prima generazione che ha abdicato al proprio compito educativo, che ha gettato i propri figli nel labirinto, che lascia i giovani impantanati in questa melma in cui vogliono farci credere che tutto sia uguale al contrario di tutto. Chi sono io per dirti cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi sono io per indicarti la strada? Cercala da te.
Al massimo gli diciamo come fare i furbetti, come non rischiare la galera, come non finire in ospedale, o in un rigurgito di senso civico, come non danneggiare gli altri, sull'onda del refrain la mia libertà finisce dove comincia la tua. Che farsene, poi, di questa libertà, come orientarla, non è dato sapere.
Insomma: bontà nostra viene fornita ai ragazzi qualche strategia di sopravvivenza nella selva oscura, ma neanche una bussola scassata per trovare l'uscita, e figuriamoci se qualcuno oggi ha ancora voglia di candidarsi novello Virgilio. Bussola e guida ledono la libertà, feriscono l'autodeterminazione, dice il pensiero unico che va tanto di moda. Vade retro.
E così leggo su Repubblica, a firma di Roberta Giommi, psicologa della sessualità: «Carlotta mi chiede cosa deve fare perché ha avuto rapporti a rischio con più ragazzi nella stessa sera e sta aspettando con paura le mestruazioni. E' minorenne e la invito ad andare al consultorio giovani. Provo sgomento a pensare che sono passati tanti anni da quando sono nati i consultori giovani e ancora non si sa come coniugare il desiderio di essere liberi nel sesso e la protezione».
Leggo nel "documento politico" sul sito del Gay Pride di Roma, che, tra le innumerevoli altre richieste di diritti, compare anche questa: il «riconoscimento dei poliamori e delle relazioni aperte come differenti forme di affettività che ciascuna e ciascuno di noi può scegliere liberamente».
Leggo che da qualche giorno è online il sito Finti Fidanzati: previo pagamento (lauto!) promette, tramite Facebook, di «far vedere ad amici, parenti e colleghi, una finta relazione con un finto partner».
Notizie date in modo asettico tutte e tre. Come se tutte e tre fossero le cose più normali del mondo: una minorenne che si accoppia la stessa sera con più maschi, il poliamore, i fidanzati virtuali.
Manca uno straccio di giudizio, sui giornali che hanno dato queste notizie; manca la consapevolezza della responsabilità educativa degli adulti nei confronti dei ragazzi; manca, quanto meno, un punto di domanda. Che strada stiamo prendendo? Che strada indichiamo alle generazioni più giovani?
Badate, lo dicevo e lo ridico. Non si tratta di rilievi moralistici o bigotti. In gioco non è una posizione del Kamasutra o il premio famolo strano. In gioco c'è la felicità della persona, e con la felicità non si scherza.
Davvero ce la sentiremmo di dire a nostra figlia che sta muovendo i primi passi nella vita, che la felicità sta in un accoppiamento serale multiplo totalmente sganciato da legami affettivi, basta che non resti incinta? O in un fidanzato virtuale un tanto all'ora? O in un non meglio specificato poliamore?
Se uno ama i propri figli sono altre (e alte!) le mete che indica. Desidera il massimo. Educa al buono, al bello, al vero, al giusto. Aiuta a comprendere che il criterio della vita non è e non può essere «voglio ergo è», il soddisfacimento immediato di ogni fregola, ma un cammino paziente che porta al compimento di sé. E allora, sapete cosa penso?
Penso che tanti sessuologi, tanti giornalisti, tanti politici, tanti intellettuali che siedono nei salotti buoni delle redazioni e delle trasmissioni che contano, tanti esperti (!) Lgbt che entrano nelle aule di scuola e da lì blaterano sulla liberazione e la libertà sessuale, evidentemente non hanno figli. Non ne hanno quelli del Gay Pride che hanno steso il succitato "documento politico" e van ripetendo che «Love is Love, basta essere consenzienti». Né chi per soldi crea siti come Finti Fidanzati. Non li hanno tenuti in grembo, non sentono la responsabilità quotidiana di educarli e di crescerli. E' chiaro che non vivono nemmeno quella maternità e paternità straordinaria che caratterizza il lavoro dell'insegnante e dell'educatore, laico e religioso, che si occupa dei figli degli altri e, accompagnandoli nel cammino, comincia a sentirli anche un po' figli suoi perché ne ha a cuore il Destino.
Un mese fa, incontrando insegnanti e studenti, Papa Francesco ha ricordato che «per educare un figlio ci vuole un villaggio» e così ha detto: «Amo la scuola perché ci educa al vero, al bene e al bello. Vanno insieme tutti e tre. L'educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. (…) Coltiviamo in noi il vero, il bene e il bello; e impariamo che queste tre dimensioni non sono mai separate, ma sempre intrecciate. Se una cosa è vera, è buona ed è bella; se è bella, è buona ed è vera; e se è buona, è vera ed è bella. E insieme questi elementi ci fanno crescere e ci aiutano ad amare la vita, anche quando stiamo male, anche in mezzo ai problemi. La vera educazione ci fa amare la vita, e ci apre alla pienezza della vita!»
Se ci stanno a cuore i giovani, se ci sta a cuore il futuro, abbiamo una responsabilità che non possiamo (più) delegare.
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