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Perseguitati e costretti a pregare nel silenzio, senza farsi vedere dai musulmani.
La storia che emerge dalle bidonville dei lavoratori stagionali nei campi di pomodoro in Puglia fa riflettere. Protagonisti della vicenda circa 300 immigrati africani di fede cristiana. "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere", raccontano in un'inchiesta de L'Espresso anticipata da Repubblica,. Una situazione paradossale che a quanto pare va avanti da tempo. Un nigeriano che ha rimediato una croce con dei legnetti racconta: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". Ma chi perseguita questi cristiani che vogliono pregare? A quanto pare sarebbero alcune "spie di caporali" di fede musulmana. "Africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis". "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
Nota di BastaBugie: Rino Cammilleri nell'articolo sottostante dal titolo "Quando i migranti eravamo noi..." fa notare come sia inutile continuare a far paragoni fra l'emigrazione italiana del Novecento e l'attuale immigrazione di massa dal Mediterraneo. Quando i "migranti" eravamo noi, eravamo passati ai raggi X da una burocrazia scrupolosissima. La nostra presenza era chiesta dal governo ospite. E dovevamo integrarci.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 18-08-2016:
La recente commemorazione della disgrazia di Marcinelle, che l'8 agosto 1956 provocò la morte di 262 minatori (la gran parte italiani) in Belgio, ci permette di riflettere sulle epoche in cui Gli albanesi eravamo noi (giusto il titolo di un masochistico bestseller di G. A. Stella). Cioè, quando a emigrare, per necessità, erano gli italiani.
L'antefatto di Marcinelle era un classico esempio di immigrazione concordata e, soprattutto, governata. Il Belgio aveva il carbone ma non gli bastavano le braccia per estrarlo. L'Italia della ricostruzione postbellica aveva scarsità del primo e sovrabbondanza della seconda. Da qui il patto: l'Italia fornisca manovalanza, la quale estrarrà il nostro carbone e poi dividiamo il frutto. Così, l'«accoglienza» era per il Belgio praticamente a costo zero, anzi con vantaggio. Periodicamente venivano fissate le quote di immigrati necessari, che trovavano all'arrivo alloggi, lavoro e salari. Niente di che scialare, certo, ma l'Europa era da poco uscita da una guerra devastante e c'era poco da fare i difficili. In precedenza, gli Stati Uniti si erano comportati nello stesso modo, pur non avendo mai avuto guerre in casa (a parte quella, ottocentesca, di Secessione). Gli Usa, terra di immigrazione se mai ce n'e stata una, ogni anno facevano i conti e stabilivano di quanta gente avessero bisogno le loro fabbriche, i loro allevamenti e le loro terre coltivabili: tot uomini o tot famiglie. Poi, si mettevano d'accordo con i governi dei Paesi di emigrazione, i quali dovevano effettuare uno screening preventivo e capillare riguardo a età e stato di salute di chi partiva. A Ellis Island, per sicurezza, gli americani verificavano la «merce», uno per uno, non esitando a rimandare indietro chi non rientrava al millimetro negli standard imposti e contrattati. Le autorità dei Paesi di partenza, sapendo perfettamente che gli americani non scherzavano sull'argomento, filtravano i candidati col crivello fine: ogni respingimento, infatti, sarebbe costato denaro alle compagnie di navigazione nazionali.
Al nonno paterno di chi scrive, negli anni Venti, fu negato l'imbarco a Palermo perché la figlia più piccola aveva gli occhi arrossati. Era stato per via del viaggio, in terza classe sul treno a vapore, dal paesello al porto. Ma la diagnosi dei sanitari italiani fu senza appello: sospetto tracoma. E il nonno dovette riportarsi indietro la famiglia, in attesa di partire, da solo, con la quota successiva. A quelli che superavano l'esame a Ellis Island, poi, la prima cosa che veniva detta era questa: adesso sei americano, chiaro? Così, se uno si chiamava, poniamo, Francesco, vista la difficoltà del funzionario yankee a pronunciare quel nome e soprattutto a scriverlo, ecco che l'immigrato diventava, subito e volentieri, Frank. E non di rado, per miglior misura, si affrettava a cambiare anche il cognome, adottandone uno indigeno se non gli riusciva di americanizzare il suo. Da qui i Cansino tramutati in Hayworth o gli Avallone divenuti Avalon. Quei new americans dovevano essere disposti anche a combattere le guerre americane, come ben seppero i siciliani che nel 1943 li videro sbarcare al grido di «paisa'!».
Ma «governare l'immigrazione» per gli Usa significava questo: davanti al richiedente ammesso venivano poste, simbolicamente, la Costituzione americana da un lato e la frusta dall'altro. O impari alla svelta l'una o imparerai, e con la stessa velocità, l'altra. Così è nata una grande nazione, che prima era vuota e che venne riempita con immigrati. I quali ancora oggi sono fieri di esserne parte. Oggi, infatti, poter dire I am americanequivale al Civis romanus sum del tempo antico. Ma, senza un'identità forte, severa e continuamente ribadita (dal cinema alla bandiera su ogni casa), si fa la fine dell'Italia boldrinica. God save Italy. Dai comunisti e dai preti.
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