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Gli hacker russi hanno contribuito realmente alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti? Il rapporto congiunto di Fbi, Cia e Nsa presentato il 5 gennaio scorso sia al presidente uscente Barack Obama che al presidente eletto Donald Trump, rivela alcuni dettagli in più su quella che è la vicenda americana più rilevante di questo inizio 2017. Sotto certi aspetti è una conferma, ma non prova che Trump sia stato eletto in modo fraudolento.
Vediamo, prima di tutto, quel che il rapporto afferma con un discreto grado di certezza, in base alle informazioni declassificate e pubblicate dai media. Si sa che gli hacker intervenuti nelle elezioni americane, sin dal luglio del 2015, siano parte di un'operazione di spionaggio russa. Si sa, però, che le elezioni non sono state dirottate. Gli hacker russi non hanno penetrato il sistema di voto. Non hanno effettuato brogli elettorali. Non hanno costretto alcun elettore americano a votare per il candidato che non avrebbe voluto votare. Non hanno manipolato il conteggio finale. Dunque non si è trattato affatto di un'elezione fraudolenta, come sembrerebbe di capire dai titoli dei maggiori quotidiani italiani. Su queste basi è difficile pensare a un possibile impeachment del nuovo presidente, tantomeno a un annullamento del voto.
NIENTE BROGLI ELETTORALI, MA SOLO UN FURTO DI DATI
L'operazione di spionaggio informatico russo è consistita in un furto di dati. Gli hacker sono riusciti a penetrare nelle comunicazioni interne di politici americani e a renderle pubbliche. In particolar modo sono state pubblicate da WikiLeaks le email del capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, ultime della serie dopo 50mila email del Partito Democratico (che rivelano la lotta interna contro Bernie Sanders) e 30mila della Clinton nel periodo in cui era Segretario di Stato. Le "Podesta Email" e le altre potrebbero essere state cedute a Julian Assange (il fondatore di WikiLeaks) anche da un membro deluso della campagna della Clinton, secondo quanto dichiarato dallo stesso Assange a sua difesa. Ma qualunque sia la fonte, quelle informazioni sono state considerate "autentiche" nel rapporto da tutti e tre gli organi di sicurezza che lo hanno redatto. Dunque è vero il pessimo concetto che Podesta nutre nei confronti degli elettori cattolici "reazionari", così come il suo tentativo di condizionare l'elettorato cattolico attraverso la costituzione di associazioni politicizzate, come Catholics in Alliance for the Common Good e Catholics United. E' vero che la Clinton abbia chiesto di fare maggior pressione su Qatar e Arabia Saudita affinché smettessero di finanziare l'Isis (dunque la Clinton sapeva qualcosa che non ha mai detto sul loro conto), benché entrambi i paesi, nel 2014, fossero l'architrave della coalizione messa in piedi da Obama per combattere il Califfato. Queste informazioni, considerate "autentiche", gettano un'ombra sulla carriera e sul ruolo dell'ex candidata democratica.
FURTO DI DATI BIPARTISAN
Non sappiamo, invece, quanto queste informazioni abbiano condizionato l'elettorato. La Clinton poteva contare su un vasto, quasi unanime, appoggio dei media nazionali. Durante la campagna, in particolar modo in ottobre, mentre venivano pubblicate le email di Podesta, di Trump si conoscevano tutti i dialoghi più imbarazzanti, sulle donne soprattutto. Questi ultimi hanno provocato reazioni in tutto il mondo e manifestazioni femministe anche sotto la Trump Tower. Delle email di Podesta si sono occupati solo i cronisti politici. E a proposito di questi ultimi, anche quotidiani non certo simpatizzanti di Trump, fra cui Politico, hanno pubblicato i contenuti rivelati da WikiLeaks. Difficile che ne abbiano parlato per danneggiare la candidata democratica. Più probabilmente non ritenevano quelle email tanto scottanti.
Quel che sappiamo è che il furto di dati compiuto dagli hacker russi è bipartisan: sono state rubate informazioni sia dal Partito Democratico che da quello Repubblicano. Nel primo caso si è potuto vedere subito l'effetto, almeno in parte. Nel secondo no. Non è ancora chiaro come i russi potranno utilizzare i dati rubati ai Repubblicani, se per ricattarli, metterli in difficoltà o quant'altro. Ma il problema è serio e riguarda la sicurezza nazionale americana in sé. Non un partito in particolare e neppure solo le elezioni presidenziali. E a uscire malconci dalla vicenda, a questo punto, sono i servizi di sicurezza statunitensi, che hanno dimostrato di non saper difendere i due maggiori partiti del paese da un furto di dati estero.
NEMMENO IL KGB RIUSCÌ A IMPEDIRE LA RIELEZIONE DI RONALD REAGAN
Quel che sappiamo è che l'operazione di spionaggio russa ha incluso anche una serie di "misure attive" (per usare i vecchi termini del Kgb). Detto banalmente: propaganda. Questa propaganda era chiaramente a senso unico: contro Hillary Clinton e a favore di Donald Trump. Il ché è abbastanza comprensibile, considerando l'ostilità della prima e l'appeasement del secondo nei confronti della Russia di Putin. Quel che non sappiamo, invece, è quanto anche questa propaganda abbia realmente plasmato l'opinione pubblica. Ai tempi della rielezione di Ronald Reagan, nel 1984, l'allora Kgb dell'Unione Sovietica applicò contro il presidente misure attive molto imponenti, con una propaganda martellante negli Usa e in Europa, contando anche sull'appoggio di parte del Partito Democratico (e del senatore Ted Kennedy, in particolar modo). Allora, questa massiccia opera di propaganda non impedì a Reagan di ottenere una delle vittorie più schiaccianti della storia elettorale americana. In queste elezioni, considerando che tutte le corazzate dell'informazione erano schierate con la Clinton, sembra strano che la sola televisione RT e il solerte esercito di "troll" russi, in azione sui social network, abbia convinto 63 milioni di americani (poco meno della metà dell'intera popolazione russa) a votare per Donald Trump.
Resta il fatto che la maggioranza ha votato liberamente per Donald Trump. E non certo a causa di un gruppo di spie informatiche.
Nota di BastaBugie: Leone Grotti nell'articolo sottostante dal titolo "Trump, i cambiamenti climatici e l'ideologia del New York Times" parla della bufala che la desertificazione del sud del Madagascar sia dovuta al tubo di scappamento delle nostre automobili. E questo articolo del New York Times è solo l'ennesimo attacco a Donald Trump.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su Tempi il 11 gennaio 2017 per commentare la notizia:
Nicholas Kristof è un grande giornalista (ha vinto due premi Pulitzer) e il New York Times è un grande quotidiano. Ma a volte riescono a organizzare operazioni ideologiche che nulla hanno a che vedere con l'informazione. Il recente filmato-editoriale "Cosa abbiamo visto in Madagascar" ne è una prova.
L'obiettivo del reportage è accusare Donald Trump di essere ideologico per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Il presidente eletto, infatti, nega l'esistenza di certezze granitiche sul collegamento tra essi e le attività dell'uomo, giudicando inutili i grandi accordi climatici come quello di Parigi. Per dimostrargli che ha torto, il Nyt fa un viaggio nel sud del Madagascar e ci catapulta in una landa desertica e desolata, affollata da bambini malnutriti.
Qui, dice Kristof, molto tempo fa c'erano fiori e foreste. Oggi solo sabbia. Intervista un'anziana donna di un villaggio: «Il clima qui è cambiato?». Risposta: «Certo che sì, una volta c'erano i fiori. Ora non c'è più niente. Mai vista una siccità così». Il clima evidentemente è cambiato. Lei il perché non lo sa, Kristof invece sì: «È colpa di noi ricchi occidentali. Le nostre scelte ricadono sui poveri. È il paradosso del cambiamento climatico». Il giornalista del Nyt non fornisce alcuna prova scientifica di quello che dice e le persone che intervista, al pari di chi guarda il filmato, non sembrano affatto interessate alla sua polemica personale con il presidente americano. «E chi è Trump?», gli risponde la signora quando Kristof cerca di farle un complimento dicendole che «lei sa molte più cose di Trump, perché riconosce che i cambiamenti climatici esistono».
Dire che i cambiamenti climatici esistono e che sono causati dall'uomo sono due cose ben diverse. Ma nel filmato si fa volutamente confusione. La miseria ripresa in modo magistrale dalle telecamere americane è immensa e struggente, ma l'unico obiettivo di Kristof è cercare di far sentire in colpa l'Occidente e far passare Trump per un capitalista insensibile. Ecco perché usa in continuazione frasi del tipo: «Ma la colpa di tutto questo è nostra». E offre soluzioni assolutamente discutibili senza fornire basi scientifiche di alcun genere: «Per cambiare in modo sistematico la vita di queste persone», azzarda, «dovremmo investire nel clima e fissare un prezzo per il carbone. Perché non dobbiamo dimenticare: questi problemi sono creati dalle vostre automobili e dalla mia».
Kristof è un eccellente inviato ma non è uno scienziato, né un economista, né tantomeno un climatologo. E non è cercando di far sentire in colpa le persone che riuscirà a convincerle che la desertificazione del sud del Madagascar è dovuta al tubo di scappamento delle loro automobili. Soprattutto, non è con un'operazione giornalistica ideologica che potrà controbattere l'ideologia climatica di Trump.
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