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A fare, per così dire, da "apripista" sono gli Stati di Victoria e Tasmania, in Australia: qui si vuole costringere i sacerdoti a violare il segreto confessionale. Per legge. Sono già state approvate, infatti, le norme, che impongono loro l'obbligo civile di denunciare i reati di abuso su minori, appresi nell'esercizio del loro ministero, durante il Sacramento della Penitenza. La minaccia, per quanti volessero disobbedire, è di sbatterli in galera. Per tre anni.
Si tratta di leggi, che si scontrano frontalmente con il Codice di Diritto Canonico, laddove spiega esplicitamente: «Il sigillo sacramentale [ovvero il segreto confessionale - NdR] è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o qualunque altro modo e per qualsiasi causa. È affatto proibito al confessore far uso delle conoscenze acquisite dalla confessione con aggravio del penitente, anche escluso qualsiasi pericolo di rivelazione» (can. 983-984). Ed ancora: «Il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica; chi poi lo fa solo indirettamente sia punito proporzionalmente alla gravità del delitto» (can. 1388).
Sulla stessa linea anche il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali: «Il confessore, che ha violato direttamente il sigillo sacramentale, sia punito con la scomunica maggiore. Se invece ha rotto il sigillo in altro modo, sia punito con una pena adeguata» (can. 1456). Ma qui si precisa come colpiti dai provvedimenti canonici siano anche coloro che utilizzino le informazioni illecitamente ottenute: «Colui che in qualsiasi modo ha cercato di avere notizie dalla confessione oppure che ha trasmesso ad altri le notizie già avute sia punito con la scomunica minore oppure con la sospensione».
PERCHÉ TANTO RIGORE?
È ben spiegato dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1467: «Data la delicatezza e la grandezza di questo ministero e il rispetto dovuto alle persone, la Chiesa dichiara che ogni sacerdote che ascolta le confessioni è obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai peccati che i suoi penitenti gli hanno confessato. Non gli è lecito parlare neppure di quanto viene a conoscere, attraverso la confessione, della vita dei penitenti».
Concetto ribadito recentemente, il primo luglio di quest'anno, anche da una Nota della Penitenzieria Apostolica sull'importanza del foro interno e l'inviolabilità del Sigillo Sacramentale, in cui si legge: «Il sacerdote viene a conoscenza dei peccati del penitente "non ut homo, sed ut Deus - Non come uomo, ma come Dio", a tal punto che egli semplicemente "non sa" ciò che gli è stato detto in sede di confessione, perché non l'ha ascoltato in quanto uomo ma, appunto, in nome di Dio. Il confessore potrebbe, perciò, anche "giurare", senza alcun pregiudizio per la propria coscienza, di "non sapere" quel che sa soltanto in quanto ministro di Dio. Per la sua peculiare natura, il Sigillo Sacramentale arriva a vincolare il confessore anche "interiormente", al punto che gli è proibito ricordare volontariamente la confessione ed egli è tenuto a sopprimere ogni involontario ricordo di essa».
In virtù di tutto questo, legge o non legge, mons. Julian Charles Porteous, arcivescovo di Hobart, Diocesi nello Stato della Tasmania, ha già avvertito i propri sacerdoti: nessuno di loro può violare il segreto confessionale, indipendentemente da quanto disposto o meno dalle leggi civili. Qui vale la legge di Dio: «Come Arcivescovo - ha detto - è mio dovere difendere l'insegnamento cattolico in materia».
Assolutamente sacrileghe, lesive di tali norme e della libertà religiosa appaiono pertanto le motivazioni addotte dall'esecutivo australiano, per giustificare l'ingiustificabile: «La cosa più importante è inviare un messaggio, quello che la legge deve essere presa sul serio e che sanzioni molto significative sono previste per chi non vi obbedisca», ha dichiarato il primo ministro dello Stato di Victoria, Daniel Andrews.
ATTACCO ALLA LIBERTÀ DELLA CHIESA
La realtà è un'altra ed è quella indicata dalla succitata Nota della Penitenzieria Apostolica, dove si legge ancora: «La difesa del sigillo sacramentale e la santità della confessione non potranno mai costituire una qualche forma di connivenza col male, al contrario rappresentano l'unico vero antidoto al male che minaccia l'uomo ed il mondo intero; sono la reale possibilità di abbandonarsi all'amore di Dio, di lasciarsi convertire e trasformare da questo amore, imparando a corrispondervi concretamente nella propria vita. In presenza di peccati che integrano fattispecie di reato non è mai consentito porre al penitente, come condizione per l'assoluzione, l'obbligo di costituirsi alla giustizia civile, in forza del principio naturale, recepito in ogni ordinamento, secondo il quale "nemo tenetur se detegere". Al contempo, però, appartiene alla "struttura" stessa del Sacramento della Riconciliazione, quale condizione per la sua validità, il sincero pentimento, insieme al fermo proposito di emendarsi e di non reiterare il male commesso». La Nota fa esplicito riferimento anche a disposizioni quali quelle approvate in Australia: «Ogni azione politica o iniziativa legislativa tesa a "forzare" l'inviolabilità del Sigillo Sacramentale costituirebbe un'inaccettabile offesa verso la libertas Ecclesiae, che non riceve la propria legittimazione dai singoli Stati, ma da Dio; costituirebbe altresì una violazione della libertà religiosa, giuridicamente fondante ogni altra libertà, compresa la libertà di coscienza dei singoli cittadini, sia penitenti sia confessori».
L'impressione è che l'obiettivo sia un altro, quello evidenziato dall'arcivescovo Porteous, il quale ha dichiarato: «La realtà è che i Santi, che hanno dato la loro vita difendendo il sigillo del confessionale, sapevano che non importa il motivo dato dal governo, non importa quanto nobili siano le intenzioni, rompere il segreto del confessionale costituirebbe la fine del Sacramento». Ed è questa la vera posta in gioco.
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