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Qualcuno svegli la ragione, che ieri evidentemente stava dormendo mentre si consumava nelle patrie stanze social l'ultimo atto del genocidio del buon senso. Chi si chiedeva se il Covid ci avrebbe reso diversi, di sicuro dovrà convenire che, almeno più intelligenti non lo siamo diventati. Con tutti i problemi che ci sono in agenda, ieri non si parlava d'altro: la sconcia e oscena immagine che accompagna - o meglio accompagnava, perché quando la situazione è seria in questo paese le cose cambiano alla velocità della luce - il varo dell'app di tracciamento Immuni.
Due piccole icone: nella prima una donna che abbraccia, avvolgendolo totalmente come una Madonna, un neonato col ciuccio. Nell'altra icona [...] il papà, nella stanza a fianco davanti a un pc che lavora. Ah... orrido sessismo! Sconcia discriminazione, hanno tuonato le vestali del politically correct. Dove sono le pari opportunità? Una donna che abbraccia a casa il suo figlioletto proteggendolo dal Covid e un maschio alfa che porta a casa la pagnotta con lo smart working. Ma dove sono i costumi di degni di un Paese di diritti?
La prima a strepitare è stata lei, la campionessa della buoncostume del pensiero unico: «La donna col bambino in braccio e l'uomo al lavoro. Un app (senza apostrofo, ndr) che dovrebbe tracciare il contagio, inquinata in partenza da insopportabili e anacronistici stereotipi», dice Laura Boldrini, la quale dopo aver lasciato la presidenza della Camera si fa notare solo quando c'è da scendere in campo con la polizia del pensiero. La crociata è poi decollata con l'intervento a gamba tesa di Paola Concia, perché non c'è battaglia più sacrosanta per i diritti in Italia se a intestarsela non è la componente gay & lesbo. L'ex deputata Pd ha fatto partire i suoi strali: «Ministra Elena Bonetti, prego gentilmente di parlare con la Ministra Paola Pisano perché questa immagine fuori dal tempo e dalla storia deve essere cambiata. Ho scritto deve, sì, perché lo dovete alle donne italiane che non meritano tutto questo».
Quali donne? Tutte? Sicure-sicure che stiamo parlando proprio di tutte? No, ovviamente perché le donne "normali", che magari dopo aver tenuto il bambino in braccio, sono anche andate in cucina a sfornare una torta - squallido retaggio sessista patriarcale - ieri erano affaccendate in tutt'altri pensieri. Ma il diktat rivoluzionario non ammette deroghe: la lotta di classe deve unire in un sol grido tutte, anche se tutte non lo sanno.
L'invito con il revolver puntato addosso della Concia ha sortito il suo scopo. Ecco che la ministra Elena Bonetti, ministra della famiglia oltre che delle pari opportunità, non ci ha pensato due volte. Eh sì che quando c'è da far valere i diritti delle famiglie, quelle vere e non quelle delle icone, la Bonetti ha brillato per la sua somma incapacità, come ammesso da lei stessa, per i fondi alle famiglie e alle scuole paritarie. Ma stavolta no, per questa battaglia di civiltà, la Bonetti si è attivata subito e ha portato all'ovile il risultato: «Cara Anna Paola Concia ho scritto ieri alla Ministra Paola Pisano e mi ha subito rassicurato sul fatto che si sta lavorando ad una modifica, che sarà rilasciata entro breve». Caspita, che solerzia!
Tempo un paio d'ore e l'immagine era già stata modificata. Come? Secondo il diktat del buonismo pariopportunistico, un rovesciamento tanto ridicolo quanto offensivo: la donna al pc e l'uomo a tenere il bambino in braccio. E adesso, vediamo chi è il discriminato? E se fossero i maschietti? Chi ci garantisce che la donna non si sta approfittando di questo ribaltamento dei ruoli con violenza? Semplice, ce lo suggerisce l'anatomopatologia di questo ridicolo e rivoluzionario siparietto di inizio giugno: Boldrini, Concia, Bonetti. Tutte donne. In nome delle donne, per conto delle donne e al posto delle donne. In questa battaglia non c'è un solo uomo che abbia avuto una sola voce in capitolo per opporsi. Dal maschio alfa alla donna alfa, il minimo comune denominatore sono le pari opportunità tanto agognate diventate "impari prepotenze". [...]
Nota di BastaBugie: Giuliano Guzzo nell'articolo seguente dal titolo "Il pensiero unico e il presunto razzismo imperante" parla di due casi clamorosi di persecuzione a persone che avevano detto la verità, ma in contrasto con la narrazione ufficiale del pensiero unico.
Ecco l'articolo completo pubblicato sul Sito del Timone il 5 giugno 2020:
L'emergenza pandemica non è ancora rientrata, anche se almeno in Italia e in Europa segnali incoraggianti non mancano, che già è prepotentemente tornato al centro della scena un virus storico, che da decenni, indisturbato, ammorba l'Occidente: quello del pensiero unico e del politicamente corretto, in nome del quale le censure non si contano, anzi si moltiplicano in antitesi ad un razzismo spesso dubbio e, talvolta, del tutto inventato. A tale proposito, sono almeno due i casi clamorosi emersi in questi giorni.
Il primo è quello di Gran Napear, il telecronista dei Sacramento Kings che ha perso il posto di lavoro semplicemente per aver - ben stuzzicato via Twitter da DeMarcus Cousins, ex star dei Kings, affinché dicesse la sua sul dibattito e sugli scontri scatenatosi dopo l'uccisione di George Floyd - osato rispondere con tre parole: «All lives matter», tutte le vite contano. Come a dire: condivisibile la rabbia e il dolore per la morte di Floyd, ma ricordiamoci che appunto tutte le vite contano. Anche quelle delle vittime degli scontri successivi.
Un pensiero di elementare civiltà, quello di Napear, che però agli occhi di alcuni è suonato come una contestazione allo slogan caro ai movimenti di contestazione che stanno mettendo a ferro e fuoco gli Usa - «Black lives matter» -, motivo per cui, come si diceva, è stato allontanato. Un licenziamento grave e liberticida che però diventa spiegabile, se si guarda a come gli indignati per la morte di Floyd siano letteralmente coccolati dai mass media; basti pensare, per fare un esempio, agli assembramenti di questi contestatori, i soli che a quanto pare nessuno osa far notare. Ma andiamo avanti.
Un secondo caso di censura verificatosi in questi giorni - forse meno grave, ma certo non meno emblematico - è avvenuto alla Winthrop University, un ateneo pubblico della Carolina del Sud. In questa università, Mark Herring, decano dei servizi bibliotecari, a pochi giorni dalla pensione, ha visto censurato un proprio articolo sul numero di aprile di Against the Grain, storica rivista destinata principalmente ai bibliotecari. Il motivo della censura?
Eccolo: nel suo articolo, Herring, aveva in modo del tutto innocente osato chiamare il coronavirus «Wuhan virus», scelta che è stata giudicata «etnicamente offensiva»; razzista, insomma. Per questo l'intero intervento è stato cancellato. Il che è doppiamente bizzarro se si considera che il pezzo di Herring non conteneva alcun incitamento razzista né particolari bordate alla Cina per come ha gestito o, meglio, non gestito l'epidemia, almeno al suo inizio.
Semplicemente, l'articolo censurato si limitava a ricordare da dove proviene il covid-19, sottolineava che da una crisi può emergere il meglio e il peggio delle persone ed esortava ad un promemoria su ciò che davvero conta nella vita: nulla di scandaloso, insomma, anzi. Eppure quel «Wuhan virus», evidentemente, pur corrispondendo ad un incontestabile dato di realtà, è stato ritenuto inaccettabile.
Ora, pur nella loro chiara diversità le vicende di Gran Napear e Mark Herring evidenziano - come si diceva all'inizio - uno stesso paradosso tutto occidentale, ossia quello di una società che non perde occasione per incensare e sbandierare la libertà quale valore supremo, salvo poi limitare quella di espressione a chi viene preventivamente e inappellabilmente accusato di essere razzista o intollerante. Una contraddizione lampante.
Da questo punto di vista, va precisato come i casi di Napear ed Herring, purtroppo, siano solo gli ultimi d'una lunga serie. Ma ciò, sia chiaro, non legittima un atteggiamento di resa, anzi c'è da sperare che raccontare la portata grave e paradossale di simili episodi possa servire a far aprire i tanti occhi ancora distratti o chiusi. Perché è decisamente concreto il rischio che proprio chi reputa simili censure di gravità relativa possa, un domani, trovarsi a sua volta vittima di quel politicamente corretto le cui derive liberticide, oggi, vengono invece incautamente sottovalutate.
TUTTI I RISCHI DELL'APP IMMUNI
Con la scusa del virus ci tolgono la libertà. Luca Donadel nel suo video (durata: 5 minuti) dal titolo "La verità sulle app di tracciamento" ci spiega tutti i rischi.
https://www.youtube.com/watch?v=EErPz4l1rcg
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