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«...non so se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito». Così cantava il cantore del Sessantotto scolastico, Venditti, e il verso la dice lunga sulla profondità dei sinistri di allora. «Tutto è politica. Il privato è politico» (Gramsci). Cioè, l'unica cosa che esiste è la politica. Infatti, a quelli non interessa altro. No, mi correggo. Il rigo seguente di Venditti recita: «Ma Paolo e Francesca, quelli me li ricordo bene».
Eggià, la sola cosa che in tutto il triennio liceale passato a studiare (?) Dante rimane in testa a un adolescente politicamente orientato sono i due adulteri che non a caso Dante mostra in balìa dei venti della passione. Senza l'ancoraggio della ragione si finisce preda del ventre più o meno basso. Come un adolescente politicizzato: non ha cultura né esperienza, basta un pifferaio per plagiarlo. Dice un vecchio adagio: se a sedici anni non sei comunista non hai cuore, se a quaranta lo sei ancora non hai cervello. Va pur detto, a discolpa di Venditti, che l'insegnamento di Dante nei licei era, come tutte le cose obbligatorie, semplicemente insulso. Almeno a mia memoria (ma anch'io appartengo alla generazione di Venditti). L'insegnante leggeva i versi della Commedia e li traduceva in italiano corrente. Che il libro che Paolo e Francesca leggevano insieme fosse «galeotto» probabilmente non lo sapeva nemmeno lui, perciò appresi che si trattava di un cavaliere della Tavola Rotonda - Galeotto, signore delle Terre Lontane - solo da adulto e per conto mio.
È vero, Umberto Eco diceva che la scuola non serve tanto a insegnarti cose, quanto a metterti in grado di trovare in tre minuti l'informazione che ti serve, quando ti serve. Ma è anche vero che l'interrogazione su Dante consisteva, pur'essa, nella traduzione in italiano corrente dei versi. Certo, pretendere che un insegnante laureato sia anche bravo è troppo. Anche i preti, non si può pretendere che siano degli oratori avvincenti. Però l'omelia devono farla lo stesso. Anche se il pubblico sbadiglia. O si distrae, come a scuola, e Dante rimane per sempre un ricordo fastidioso o distorto (se il pomeriggio qualcun altro me lo spiega in sezione).
Mi si permetta un aneddoto personale (anche perché in questo settecentenario legioni più competenti di me si sono cimentate, perciò ci sarebbe poco da aggiungere). Per un breve periodo fui assistente agli esami di Storia degli Stati Uniti, materia appena introdotta in Facoltà. A una sessione si presentò una candidata che, invitata a un argomento a piacere, partì con una velocissima cantilena ovviamente memorizzata a pappagallo. A un tratto una parola fuori posto mi mise in allarme e interruppi: «Ma signorina, lei lo sa che cosa è il Congresso?». Silenzio attonito e sudato. Il titolare allora le fece cenno di continuare, e lei riprese con la stessa parola su cui era stata fermata. Ta-ta-ta-ta... All'ora del voto, il titolare scrisse 27. E io: «Ma come? Quella passerebbe a Storia degli Stati Uniti senza sapere che cosa è il Congresso? Si rende conto che sicuramente andrà a fare l'insegnante?». Risposta: «Se comincio a bocciare, gli studenti disertano il corso e me lo aboliscono per mancanza di utenza».
Insomma, qualcuno inventi un modo nuovo per insegnare Dante nelle scuole, altrimenti dovremo adattarci ai comici come Benigni. Ma guardate i film americani e inglesi, se proprio non siete mai stati nei Paesi anglofoni. Il loro poeta nazionale è Shakespeare e lo citano continuamente, lo rappresentano, organizzano teatri nelle scuole, lo sanno a memoria, perfino nei saloon del west c'è chi lo recita. Moltissimi, se non tutti, attori inglesi sono «shakespeariani», nel senso che è sui testi del Bardo che si sono formati e hanno fatto carriera. Tanti sono diventati «sir» e parecchi sono Oscar. Non ce n'è uno che, cimentatosi alla regia, non abbia messo in scena un'opera di Shakespeare. Il nostro Zeffirelli, conoscendo bene il mercato internazionale, vi ha attinto più volte. Perfino il Capitano Picard di Star Trek viene da quelle esperienze. In Italia abbiamo Dante. E lo lasciamo a Benigni.
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