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Tutto fu fortuito, ma non casuale. Un incontro sotto la statua di Giordano Bruno a Campo dei Fiori; lei, una ragazza minuta e «cattolicissima», che chiede a lui, un uomo alto, imponente, robusto che aveva conosciuto i porti di mezzo mondo, un’indicazione. Lui che la rassicura: «Ti accompagno io». Come ha detto Roberto Saviano durante la trasmissione Vieni via con me raccontando la vicenda di Mina e Piero Welby, la loro è «una storia d’amore che ti entra dentro». Amore. è la parola che con maggior frequenza è ritornata all’interno di un monologo teatrale di una trentina di minuti. A occhio e croce, il giornalista l’ha ripetuta almeno una decina di volte. Ha parlato molto anche di «accanimento terapeutico», anche se quello di Piero Welby non è mai stato un caso di questo tipo. Ha citato il cardinale di Milano Carlo Maria Martini per dire che l’accanimento terapeutico è sbagliato. è vero, lo sostiene anche il Papa. Solo che quello di Welby non era accanimento terapeutico. L’unica parola che Saviano doveva pronunciare per onorare realmente il senso della battaglia di Welby non l’ha mai proferita: «eutanasia». Però Saviano ha raccontato delle confidenze tra i due amanti, di un amore sofferto e vero che aveva nelle sue fibre il terrore di un demone – la distrofia muscolare – che portò lui alla paralisi. E poi lo portò a usare il sintetizzatore vocale per scrivere un appello al presidente Giorgio Napolitano perché ascoltasse la sua voce, quella di un radicale che voleva fare della sua morte una bandiera. Una bandiera che sventolasse quale vessillo? Quello dell’eutanasia. L’unica parola che Saviano non ha pronunciato. Ha dovuta dirla Mina, la «cattolicissima Mina», in un altro degli spazi che Vieni via con me ha concesso alla narrazione di questo «amore che ti entra dentro». Leggendo l’ultimo e intimo dialogo avuto col marito, era stato proprio Piero a ribadire alla moglie il senso del suo gesto autodistruttivo: «La lotta per l’eutanasia con i radicali. E a Marco Pannella, vecchio bestione, ti voglio bene». Non che fosse un mistero. Welby ha sempre parlato coscientemente di eutanasia. Di questo, però, Saviano non ha parlato. Eppure in mezz’ora di trasmissione non gli sarebbe mancato il tempo. Ma il problema era che lui voleva parlare di «amore», «di un sogno in dimensione casalinga», «di un tronco umano che sapeva esprimersi poeticamente», di un uomo che «non voleva andare incontro al suicidio, ma porre fine a quella che non è più una vita».
Sono i delitti della tenerezza. Quelli che sono giustificati dall’amore. Una passione che è impegno civile, battaglia per tutti, perché siano affermati «i diritti dei malati, di tutti quanti gli italiani». Fino al momento del pathos finale, così come lo ha raccontato ancora l’autore di Gomorra. Luci soffuse, voce roca: «Mina: “Sei sicuro?”. Lui chiude gli occhi per dire “sì”. Piero si addormenta. Finalmente. Per sua volontà». Tuttavia, come ha spiegato Saviano, anche questo amore ha i suoi nemici: nel caso specifico l’avversario insolente e insensibile è la Chiesa che nega i funerali a Welby – che per la cronaca non li aveva chiesti, ma questo non è stato ricordato – e però li ha concessi a Pinochet e a Francisco Franco. Che scandalo. «La chiesa è rimasta chiusa», ha detto Saviano.
D’altronde è sempre la Chiesa ad essere nemica di questa tenerezza che ci vorrebbe tutti così mansueti fino a soffocarci. è colpa dei cattolici se in italia non c’è l’eutanasia. Quando Mario Monicelli si è gettato dal quinto piano del reparto di urologia 2 dell’ospedale san Giovanni di Roma, la scena che si presentava agli occhi dei soccorritori era questa. Il corpo di un uomo di 95 anni, che in vita fu stimato e grande regista, ricoperta da un telo bianco sotto la pioggia insistente di fine novembre.
Monicelli non ha lasciato una riga per spiegare il suo gesto. Sappiamo solo che stava attraversando un periodo di depressione, che era affetto da un male incurabile, che solo pochi minuti prima «sorrideva agli infermieri». Sebbene Monicelli non abbia lasciato scritti, sebbene in vita sua non si ricordino battaglie in favore dell’eutanasia, altri hanno deciso di interpretare questa tragica fine per i loro scopi. E per farlo hanno dovuto, innanzitutto, spiegare che quello non era un suicidio, ma «un estremo atto di volontà», come ha detto con assai poca cautela il Capo dello Stato. «Un gesto di libertà – è stato scritto sul settimanale Gli altri –. Un gesto in fondo bello». L’atto di un uomo, come ha spiegato Paolo Villaggio, «che ha voluto decidere della sua vita fino in fondo. è stato coraggioso». Perché, poi, «Mario non è morto. Ha scelto di andarsene» (Ettore Scola) e oggi è meglio ricordarlo «mentre è in volo, non a terra» (Mario Martone).
Possiamo forse parlare del suicidio di un uomo cieco e depresso? «è stato un estremo gesto di libertà e di anticonformismo» (Stefania Sandrelli), un modo di lasciarci «molto cinematografico» (Carlo Vanzina), «una prova di carattere» (Lietta Tornabuoi), «un grande gesto di coraggio» (Eva Cantarella), «che ha ci ha ringiovaniti di cinquant’anni. L’ultimo affronto a una vita presa di petto» (Giovanni Veronesi), un’uscita di scena «che non impone solo rispetto, ma suscita simpatia. Si capisce, si sente, è fatta della stoffa di cui sono fatti gli umani, quando se ne ricordano» (Adriano Sofri).
Monicelli non ha voluto alcun funerale e le sue ceneri saranno sparse in mare. Mentre il feretro passava tra la folla per l’ultimo ricordo, la gente urlava «Mario, ci hai fatto divertire». Nel discorso funebre, Villaggio ha fatto commuovere tutti parlando di «gesto meraviglioso». Non c’è stato né un briciolo di pietas né un ultimo scampolo di pudore. Neppure un dissacratore come Monicelli è riuscito a sfuggire agli elogi di quelli che Ruggero Guarini ha definito i «pavoni suicidari», quelli che «anziché suicidarsi loro preferiscono sostenere la causa del suicidio, facendo la ruota sulla pubblica scena con le penne dei suicidi altrui». Una combriccola che meriterebbe solo l’invito che ha rivolto loro il direttore del Foglio («mandateli affanculo») e che invece hanno avuto agio sui quotidiani di esprimere tutta la propria pacchiana tenerezza. Come Luigi Cancrini che ha potuto scrivere sull’Unità che «è stata una dimostrazione grande e semplice di amore per la vita». O come Walter Veltroni, che ha potuto spiegare che «ha vissuto, non si è lasciato vivere e non si è lasciato morire. Ha deciso di andarsene. Era un italiano con la schiena dritta». D’altronde come hanno spiegato la radicale Rita Bernardini e l’oncologo Umberto Veronesi, «con l’eutanasia avrebbe fatto una fine più dignitosa». Dove la dignità, par di capire, sarebbe stata che l’avremmo ucciso noi. Ma con tanto amore.
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